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Attualità | 20 ottobre 2025, 09:43

Sanremo: l'olivo in Liguri e il dogma d'Oriente, verso il Poggio, vicino a Villa Minerva, si erge maestoso 'Urivu Grosu'

Un antico olivo secolare che cresce isolato sul versante esposto a mezzogiorno, offrendo da secoli la sua chioma al sole e al vento del mare

Sanremo: l'olivo in Liguri e il dogma d'Oriente, verso il Poggio, vicino a Villa Minerva, si erge maestoso 'Urivu Grosu'

Lungo la salita del Poggio di Sanremo, nei pressi di Villa Minerva, si erge maestoso l’“Urivu Grosu”, un antico olivo secolare che cresce isolato sul versante esposto a mezzogiorno, offrendo da secoli la sua chioma al sole e al vento del mare. Nonostante l’età, l’altezza dell’albero potrebbe trarre in inganno: è solo avvicinandosi che si può ammirare la sua imponenza, le forme e la ruvida bellezza del tronco nodoso e contorto, cesellato dal tempo. Si dice che abbia almeno ottocento anni, e che sia rimasto lì, come a evocare antichi legami tra uomini di terra e di mare, solenne, come un ponte sospeso fra passato e presente.

Certo è che l’olivo, nel Ponente ligure, vanta una storia millenaria. Un’impronta che ha lasciato profondi ricordi: storie di donne, uomini e bambini che hanno condiviso la loro vita tra fatica e sudore, nelle “campagne d’urive”. Storie di muntagnine che passavano lunghi inverni chine, a raccogliere con le mani intorpidite dal freddo, fino all’ultima oliva, talvolta tirandola fuori dai garbi dei mascei, tra anguste fasce rubate ai pendii montani. Uomini che accompagnavano il lento avanzare dei buoi, mentre tiravano il pastasso per preparare il terreno alla raccolta, e che con braccia instancabili sbattevano con vigore i rami usando i trapareli, per far cadere le olive più ostinate. Storie di fede, nelle litanie mattutine delle Rogazioni, processioni che accompagnavano le caselle votive lungo le strade campestri, per invocare le preziose piogge primaverili. Una memoria che parla di sofferenza e speranza, ma anche di amarezza, al punto da chiamare l’olivo “l’albero della fame”.

Un dire comune, leggendario e accettato quasi come un dogma, attribuisce la provenienza di questa pianta alle lontane terre d’Oriente, e il suo arrivo in Liguria ai naviganti fenici e greci. La successiva coltivazione e diffusione sarebbe invece merito dei monaci Benedettini della comunità di Taggia. Come in tutte le storie, ci sono cose vere, altre meno, alcune fantasiose. A portare un po’ di chiarezza in questa intricata vicenda hanno contribuito, negli ultimi anni, studi interdisciplinari che hanno unito archeologia botanica e genetica comparata, analizzando reperti fossili di oleastri, olivi domestici e olivastri spontanei.

Da queste sofisticate indagini genetiche è emerso che nel bacino del Mediterraneo orientale e occidentale crescono popolazioni di oleastri con patrimoni genetici ben differenziati, e che il settore occidentale presenta una maggiore ricchezza genetica rispetto a quello orientale. La diversità genetica tra le popolazioni ci riporta ai grandi cambiamenti climatici successivi al Pleistocene, epoca geologica caratterizzata da eventi estremi, con cicli alternati di glaciazioni e periodi interglaciali più miti. Durante queste fasi, le foreste di oleastri che caratterizzavano la flora termofila del Mediterraneo occidentale subirono profonde recessioni a causa del freddo, e popolazioni relittuali sopravvissero in aree più protette. Questo isolamento frammentato impedì il flusso genico della specie, favorendo una maggiore biodiversità tra le diverse aree geografiche separate.

Questa prima evidenza ci permette di affermare che l’olivastro era presente lungo le coste del Mediterraneo, e apre all’ipotesi che forme di addomesticamento locali si siano verificate in epoche e aree diverse. Alla luce delle recenti scoperte scientifiche, possiamo rivedere la vecchia teoria che attribuiva al Medio Oriente l’unica culla delle varietà di olivo coltivato, nate da selezioni dell’olivo selvatico. Secondo questa interpretazione, le varietà coltivate in tutto il Mediterraneo avrebbero avuto origine da un unico centro di domesticazione nel Mediterraneo orientale. In un periodo successivo, tra il III e il II millennio a.C., l’olivo si sarebbe diffuso verso occidente, in Grecia e negli arcipelaghi dell’Egeo. Verso l’inizio del I millennio a.C., si sarebbe verificata una ulteriore migrazione verso l’Italia meridionale e la Sicilia. Fino a quel momento, l’olivo si era spostato verso occidente sulle navi dei fenici prima, e dei greci poi. La conquista romana dei territori mediterranei favorì la coltivazione dell’olivo domestico in nuove aree. 

Il processo migratorio delle varietà domestiche assunse così una dimensione globale, estendendosi a tutto il Mediterraneo occidentale. Possiamo affermare che non venne introdotto l’olivo in sé, ma solo alcune selezioni particolarmente produttive, meritevoli di essere coltivate. Il trasporto del primo germoplasma, seguendo prevalentemente le vie marittime, sarebbe avvenuto tramite talee o noccioli. Questa introduzione si affiancava a popolazioni locali di oleastro spontanee, o già oggetto di una rudimentale domesticazione: una linea evolutiva separata di materiali domesticati, successivamente mescolata con il germoplasma orientale migrato nella regione. Questa vicinanza potrebbe aver favorito localmente fenomeni di impollinazione incrociata.Da un’iniziale popolazione di olivastri locali incrociati con varietà mediorientali, rinnovata naturalmente per seme, attraverso processi di selezione massale e scelta di genotipi superiori, si sarebbero ottenute nuove varietà. Non dimentichiamo che gli uccelli si nutrono di olive, poiché lungo la costa sono spesso l’unico frutto disponibile nei mesi invernali. Le cultivar potevano quindi rinnovarsi anche spontaneamente, grazie alla diffusione operata da animali e uomini.

Tra un continuo succedersi di ibridazioni spontanee e semine, la propagazione avrebbe portato alla selezione e poi alla moltiplicazione clonale delle cultivar moderne. La coltivazione e la moltiplicazione locale delle diverse varietà potrebbero aver privilegiato, in un primo tempo, la produttività e la resistenza al freddo, sviluppando successivamente la selezione anche in funzione della qualità dell’olio. Possiamo dunque ritenere che la diversità proveniente da Oriente abbia arricchito la biodiversità esistente in Occidente, plasmando la diversità genetica dei nostri olivi coltivati. I marcatori molecolari mostrano, inoltre, che la stragrande maggioranza delle varietà proviene da un singolo albero propagato vegetativamente. I coltivatori chiamano questi alberi teste di clone, ma bisogna tenere conto anche della variazione genetica naturale.

Ma allora, possiamo sapere da dove proviene la nostra pregiata Taggiasca? Il quesito se lo era già posto il celebre agronomo ligure Giorgio Gallesio, che nel XIX secolo scriveva: «È difficile il determinare il paese ove ha cominciato questa preziosa varietà».Gallesio avrebbe voluto svelare l’arcano, e avanzava l’ipotesi di un centro d’origine ligure-provenzale, riconducibile alla colonia dei Marsigliesi greci. Un’intuizione che ben coincide con le più recenti indagini paleobotaniche e genetiche. Sembrerebbe che la varietà Taggiasca conservi un significativo pool genico tipico del Mediterraneo orientale, unitamente a tracce citoplasmatiche presenti solo negli olivastri provenzali. Lo scenario più probabile è che una cultivar orientale, introdotta in Occidente, abbia fornito polline agli olivastri locali e che, attraverso ulteriori incroci e selezioni, tra i discendenti sia stato scelto un albero capostipite per i suoi frutti, moltiplicato e propagato in genotipi simili con diversi nomi: Taggiasca, Tagliasca, Frantoio, Lavagnina, Olivo Gentile, Giuggiolina, Cailletier

Naturalmente, il valore di una varietà è strettamente legato al terroir, che rappresenta la conditio sine qua non per il successo dei suoi prodotti, come l’olio. Ciò significa che l’uomo ha ottenuto qualità e quantità ottimali da una cultivar in un terroir specifico, mentre in altre località la stessa cultivar potrebbe non dare gli stessi risultati. Per gli olivicoltori, adattare le varietà preferite a una regione è il criterio principale per ottenere prodotti di eccellenza, come la Taggiasca.

Le olive Taggiasche liguri hanno ottenuto ufficialmente il riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta (IGP) dall’Unione Europea, come annunciato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea all’inizio di ottobre 2025. Questo traguardo tutela l’autenticità, la qualità e l’origine del prodotto, valorizzando la tradizione e il territorio ligure.

Per chi volesse approfondire l’argomento si rimanda all’incontro culturale organizzato dalla Fondazione l’Uomo e il Pellicano, dal titolo: L’Olivo e il dogma d’Oriente, che si terrà il giorno 29 ottobre, alle ore 16,30 presso il Floriseum di Villa Ormond. Relatori Alberto Guglielmi Manzoni e Claudio Littardi. Seguirà una degustazione di oli e prodotti locali e la lettura di aneddoti e poesie sanremasche da parte dei poeti Lionello Brea e Tommaso Lupi.

Redazione

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