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Eventi | 19 luglio 2021, 11:26

Al Badalucco Book Festival la prima presentazione del libro “Prigionieri dell'infinito” di Martin Beux

Appuntamento venerdì 30 in piazza Umberto Eco

Al Badalucco Book Festival la prima presentazione del libro “Prigionieri dell'infinito” di Martin Beux

L'edizione 2021 del Badalucco Book Festival ospiterà venerdì 30 la presentazione del libro “Prigionieri dell'infinito” di Martin Beux. L'appuntamento è per le 19 in piazza Umberto Eco.

La vicenda principale si sviluppa nell'arcipelago di Porto Grande, trasposizione letteraria di Capo Verde. La fabula si suddivide su tre piani temporali, uno passato e uno futuro rispetto a quello principale. Ognuno di questi è legato a rispettivi personaggi femminili. Il passato e il futuro evocano una dimensione onirica. Tuttavia, indizi come la toponomastica, che fa riferimento a isole fantasma o luoghi mitologici, suggerisce al lettore attento che è proprio la vicenda principale, per quanto contempli episodi di vita vissuta descritti in maniera verosimile, ad appartenere piuttosto a una realtà onirica. Questa relazione tra sogno e veglia verrà infine svelata nell'epilogo, dove rimarrà il dubbio su quali vicende appartengano a quale dimensione.

Tra le macro tematiche trattate, la principale è la fuga, che si manifesta dapprima nella forma del viaggio e della partenza fine a se stessa, infine da una situazione scomoda e in qualche misura pericolosa. In entrambi i casi, il protagonista fugge per il disperato bisogno di cambiare lo stato di cose, ma si tratta infine di una fuga da se stesso e dai propri demoni.
Proprio questo vuole essere il messaggio principale, e da qui il titolo, del romanzo: l'universalità della condizione umana conformemente alla prigione autoinflitta del proprio intelletto. L'individuo si rende schiavo di sé stesso, combattendo con i fantasmi del proprio passato e con l'ansia dell'avvenire, e con le conseguenze di scelte inadeguate al proprio benessere interiore. Collateramente, la sua battaglia è resa più atroce dal ritmo incalzante e inesorabile del tempo. Una storia di sigarette fumate al vento e contemplando l’oceano, “Prigionieri dell’Infinito” è anche un urlo disperato contro il trascorrere del tempo.
Il protagonista sembra voler fermare il sole nella sua corsa senza fiato intorno al mondo, ma è proprio del suo moto perpetuo che sembra aver bisogno, identificandosi con l'universale condizione umana di alternanza tra il giorno e la notte. Un romanzo di oscurità e bagliori.


Brani significativi

Aveva maledettamente ragione e la cosa ancora peggiore era che sapevo benissimo che quella violenza l’avremmo subita ancora e ancora e sarebbe stata sempre più atroce! In questo folle gioco di guardie e ladri, sognavo di essere il ladro, quello che scappa, non rendendomi conto che avevo finito per fare la guardia, quello che rincorre, ma senza sapere cosa né perché. Eravamo estremamente simili in questo, non per altro ci conoscevamo da una vita intera. Però, a me, per vivere sarebbe bastato fuggire; mentre Maurizio inseguiva invano la feroce chimera della vita, il riflesso sbiadito del proprio brillante avvenire. Intanto, da qualche parte lassù, un ghigno regnava incontrastato, all’altezza del nostro andare, e una voce sembrò ammonire, proveniente dall’universo: Vivi, anima dannata, finché sei viva!

La caletta era deserta: solo una coppia di bambini giocava spensierata sulla battigia. All’estremità opposta si ergeva un piccolo faro dismesso, ormai diroccato, il cui bianco ritagliava un angolo di rovina nel blu del cielo intenso, in cima alla roccia che tormentata dalle onde chiudeva la piccola baia. Le palme che la contornavano lungo tutto il perimetro macchiavano di verde la spiaggia renosa. Timide le onde si adagiavano sulla sabbia cullando con la loro melodia il mio stanco pensiero. Il lamento di un gabbiano solitario in lontananza ne completava la pacata armonia. Inquieto, mi addormentai.

Forse per questo sono sempre stato attratto dai fari e dai loro promontori, e dal loro fascino misterioso. Perché sono là dove, dopo miglia e miglia, il continente finisce d’improvviso e si dispiega un oceano sterminato; dove termina l’oceano ed ha inizio un vasto continente. E in alto un cielo senza fine. Per ciò sono il simbolo dell’estremo, poiché il loro è il luogo dove mondi opposti si incontrano e violentemente collidono, dove le onde del mare prepotenti scalfiscono la roccia dura. A un faro in genere porta una sola strada: quella che si è appena percorsa. E davanti solo l’immenso oceano, che da qualche parte bacia altri lidi lontani, irreale sipario di altri mondi. È l’unico luogo dove l’inizio e la fine coincidono, passato e futuro diventano una cosa sola, e l’orizzonte distante bisbiglia che tutto è ancora possibile.

Avevo trascorso mezza vita a sognare la mia grande fuga, Dio solo sa da che cosa, finché un giorno mi sarei accorto che l’unica cosa a fuggire era stata la mia giovinezza. Chiesi un foglio e una penna alla barista altezzosa e scrissi una lettera a mio padre. Non la imbucai mai, e quelle rimasero per sempre parole senza un lettore, intenzioni sepolte, segni neri su un foglio bianco disperso nel vento e senza una meta. Forse quel flusso di coscienza avrebbe trovato un giorno il suo destinatario. O forse no. Quanto a mia madre, invece, non mi restava che la dimensione agrodolce del sogno per poterla accarezzare, e sapevo che prima o poi, nei pochi istanti prima del risveglio, in qualche sinapsi del mio cervello l’avrei rivista.

Quel che mi faceva avanzare ogni giorno, e ogni notte, erano i miei passi ripetitivi, destro e poi sinistro, uno dopo l’altro ancora. Ma quel che cambiava era l’asfalto, i volti, i nomi, le storie e le speranze, le anime sepolte i' questo vasto, immenso mondo. Ancora non poteva essermi chiaro del tutto ma, se in molti posti avevo lasciato il cuore, a Porto Grande avrei lasciato molto di più. Si può amare un posto o lo si può odiare. Ma lo si può amare con odio solo se è teatro di una storia d’amore, non una storia qualsiasi, ma tormentata, convulsa, una di quelle storie per cui non si può stare con l’altra persona ma al tempo stesso non si può stare senza di lei.

Il Tempo, maledetto Tempo, che non ci dà tempo di rimediare ai nostri errori, non ci dà tempo di essere giovani due volte e poter fare la scelta giusta, non ci dà il tempo di fermarci e ridere, fermarci e piangere, perché va avanti all’impazzata e, se ci si ferma, lo si perde per sempre, perché lui va avanti, avanti e non aspetta nessuno, non guarda in faccia nessuno. Non ci dà il tempo di capire come si fa ad amare e ad essere amati.

E ancora una volta mi lasciai quella porta alle spalle credendo che fosse l’ultima. Fu come quando cominci a bere il liquore locale convinto di degustarne un solo bicchiere, poi ne ordini un secondo, e alla fine torni a casa con le ginocchia piegate dallo stato d’ebbrezza. E quando si beve a stomaco vuoto ci si ubriaca più facilmente, perché si ha fame, e si è più esposti. Senza neanche rendermene conto, mi ritrovai sommerso in un oceano tempestoso quando avevo la sola e semplice intenzione di bagnarmi i piedi gustandomi lo spettacolo dalla battigia. Ma piano piano la marea ti risucchia corpo e anima in mare aperto, trascinandoti con sé.

Fu sfacciato, me la servì con due schiaffi dritti in faccia la nuda realtà e fu tutto ciò di cui avevo bisogno, fu tutto ciò di cui avevo sempre avuto bisogno in tutti quei mesi, un fottutissimo scossone. Dovevo scendere dall’onda che avevo provato a cavalcare e per farlo avevo bisogno di caderci dentro, dritto, di faccia, perdermi nella sua schiuma fino a restare senza fiato, avevo bisogno che l’onda stessa mi prendesse a schiaffi e mi schiacciasse dentro di lei fino quasi a farmi affogare. E solo allora, quando nei polmoni non mi fosse rimasta che l’ultima molecola di ossigeno, mi avrebbe rilasciato per dirmi: «Hai visto? Non eri tu a cavalcare me. Ero io che cavalcavo te». E poi solo silenzio. Perché in certe battaglie non c’è diritto di replica. Bisogna avere un gran rispetto per l’oceano della vita.

In quell’esatto istante, finalmente riuscii a vedermi dal di fuori, dall’universo, piccolo, laggiù sul palcoscenico del mondo, e quell’istante durò quanto l’eternità. Era come se per tutto quel tempo fossi rimasto immobile a guardare la tempesta dritto in faccia mentre si avvicinava, in trance. Sapevo che sarei dovuto scappare, ma la visione della grande onda mi paralizzava e io ero rimasto seduto sulla battigia a contemplare il riflesso della vita sulla sabbia, mentre il film veniva proiettato in un’altra sala.

Piansi anni di cieli neri e di sconfitte, piansi tutte le ingiustizie del mondo e quello fu l’unico momento di tutta la mia vita in cui mi sentii una cosa sola con tutto l’universo. Perché l’universo è un posto dove il buio regna sovrano, scalfito da esplosioni di luce spaventose. E noi, piccole gocce di luce, cerchiamo lacrime di pioggia nell’inquietudine della bonaccia, per poi rimpiangere pallidi raggi di sole avvolti dalla tormenta. Chissà cosa andiamo cercando, mentre incuranti sdegnamo cotanta vita divorati dal tempo. Chissà...

Cominciai a sentire le botte della vita a partire dal giorno seguente. Non c’erano vincitori né vinti in questa guerra. Perché in fondo la vita non è altro che un’immensa sconfitta. Una fottuta e inesorabile corsa verso e contro la decomposizione e il nulla. E, come in una battaglia, si trattava solo di farsi battere nella maniera più dignitosa. Perché l’intera vita è una corsa contro il vento del tempo. E bruciamo, bruciamo, bruciamo... Bruciamo vita come il fuoco con l’ossigeno, finché non resta che un cumulo di cenere.

Forse proprio per questo mi sono sempre piaciuti i terminali d’aeroporto. Non tanto per la gente che va e per la gente che viene. Ma perché ti permettono di fuggire e andare lontano. Fuggire da un posto, da una donna, da una speranza disattesa, da una menzogna, da un presente che improvvisamente diventa obsoleto. Per quanto male si mettano le cose, potrai sempre fuggire alla volta di un nuovo angolo di mondo ancora sterile di esperienza e vergine di conoscenza, un altro porto sicuro nel quale approdare e trovare riparo dall’estuoso pelago del passato, dove ancora non hai seminato emozioni e dove ancora non hai provato dolore.

Che cos’è quel fiume in piena che ci travolge d’improvviso mentre ce ne stavamo inquieti ad aspettare chissà cosa, ai bordi della grande secca? E ci trascina, ci affoga e ci risputa in un altro deserto, dove ci abitueremo di nuovo all’agonia della sete. Grandi onde che ci prendono e s’infrangono scaraventando la nostra carcassa inerme sugli scogli. E noi cerchiamo di stare a galla. Ma, ogni volta, non eravamo pronti. È la vita che si manifesta senza farsi capire, limpida e oscura, nella notte stellata del mondo.

 

 

C.S.

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