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Attualità | 27 gennaio 2016, 07:21

Imperia: quando il coraggio e l'amore vinsero sul nazismo. La storia del Professor Pippo Ballestra nei campi di lavoro tedeschi

Tramite le parole di suo figlio Marcus, ricordiamo un personaggio di Imperia, per due anni prigioniero in un campo di lavoro nazista. Se la sua serenità morì li, nello stesso posto conobbe l'amore della sua vita.

Imperia: quando il coraggio e l'amore vinsero sul nazismo. La storia del Professor Pippo Ballestra nei campi di lavoro tedeschi

Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche varcarono l'entrata di uno dei peggiori teatri dell'orrore nazista. Era il campo di concentramento della città polacca di Oświęcim, meglio nota come Auschwitz e ciò che i soldati trovarono, valicava la più fervida immaginazione umana: strumenti di tortura, persone usate come rifiuti e una tragedia, che lascia ancora oggi senza parole.

Proprio il 27 gennaio venne scelto dall'ONU, come “Giornata della memoria”, in ricordo della Shoah. Sono poche ormai le vittime superstiti in grado di raccontare quegli orrori e il miraggio della liberazione. Imperia, fino a qualche giorno fa, poteva vantare un uomo, che pur non essendo di origine ebraica, fu rinchiuso in un campo di concentramento tedesco e impresse sulla sua pelle quei tragici momenti.

In questa giornata particolare, vorremmo ricordare il Professor Giuseppe Ballestra, mancato da poco, conosciuto a Imperia sia come insegnate, sia per gli anni in cui ricoprì la carica di Presidente dell’Amat, facendo propria la battaglia per gli approvvigionamenti idrici. Questo è il suo ricordo, nelle parole del figlio Marcus.

“Mio papà, Pippo, nacque nel 1922 alla foce di Porto Maurizio, da una famiglia semplice. Mia nonna Marietta, che andava a piedi scalza con un grosso fardello sulla testa, per le mulattiere, a vender fiammiferi e altre piccole cose, di paese in paese, mettendo le scarpe solo nei centri abitati per non consumarle. Mio nonno Giovanni, originario di Valloria, che gestiva un frantoio.

Poi un giorno arrivò la guerra e mio papà dovette abbandonare la sua città, Porto Maurizio, per iniziare il servizio militare con gli alpini. Nessuno si aspettava, all'epoca, quello che sarebbe successo realmente di li a poco. Poi, all'improvviso, la realtà prese il sopravvento e alle gare di corsa con i commilitoni, si sostituirono i campi di lavoro. Mio padre venne fatto prigioniero in Germania, per due interminabili anni. Qui conobbe la fame, la malattia, i bombardamenti, la miniera e i tentativi di fuga, per tornate alla vita. Ogni giorno il suo lavoro era spingere un carro, pieno di cadaveri, verso le fosse comuni. E lui al tempo non poteva dirsi più vivo delle persone che trasportava, con un peso inferiore ai 50 chili.

Sul finire della guerra, dopo l'arrivo degli alleati, mio padre venne trasferito in un grande campo militare. Durante gli anni nel lager, imparò un po' di tedesco, per questo venne assegnato alla gestione delle cucine e agli approvvigionamenti, assieme al personale locale. Questa fu la più grande fortuna della sua vita, perché proprio in quella cucina conobbe Marga, mia mamma, reclutata dal paese vicino. Dopo due anni, divennero marito e moglie, sposandosi a Imperia, in una chiesa gremita di gente, curiosa di vedere chi fosse La Tedesca! Dopo la guerra e tutto quello che aveva passato mio padre, l’amore con la A maiuscola aveva vinto, sui nazisti, sulla tragedia...su tutto”.

Giuseppe Ballestra è stata una persona che ha saputo rialzarsi da un incubo come quello del nazismo, trovare la forza di lasciarsi tutto alle spalle e costruire un futuro, assieme ad una persona che divenne una parte complementare di tutta la sua vita.

“La felicità ha spesso abbandonato miei genitori. Ebbero quattro figli, io sono il minore. Sperimentarono per due volte il dolore più grande che un genitore possa imaginare: la perdita di un figlio. Il primo fu mio fratello Gianni, capitano dell'aeronaurica militare, caduto in servizio e mio fratello Willi, portato via da una brutta malattia.

Mio papà se ne è andato da pochi giorni e il mio rammarico è quello di non avergli fatto maggiori domande sulla sua vita e in particolare quella nel campo di lavoro in Germania, di cui voleva sempre parlarmi. Questo perché purtroppo, quando raccontava queste cose, non prestavo molta attenzione e, con il senno di poi credo che bisognerebbe esser come spugne e saper stare ad ascoltare. Il grande amore che univa mio padre a mia madre è riuscito a fargli superare tutte le avversità della vita e a tenerli uniti per ben 68 anni. Ricordo con infinita tenerezza vederli ancora, fino a poco tempo fa, abbracciarsi, tenersi per mano e scambiarsi bacetti come una coppia di sposini”

Stefania Orengo

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