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Attualità | 04 ottobre 2020, 08:00

#liguritudine: il dialetto ligure sulla via del tramonto? Solo l’8% dei liguri lo utilizza

Il passare del tempo e l’evoluzione della società attraverso i suoi tratti più tipici, la maggiore scolarizzazione, la televisione e il parziale abbandono della vita in campagna, hanno fatto in modo che molti termini di quel grande dizionario dialettale si siano persi

#liguritudine: il dialetto ligure sulla via del tramonto? Solo l’8% dei liguri lo utilizza

Secondo una indagine ISTAT del 2015 la Liguria, assieme a Toscana e Valle D’Aosta, è una delle regioni in cui il dialetto si parla sempre meno e, con il tempo, potrebbe scomparire. I numeri mostrano che solo l’8% dei liguri lo utilizza tra le mura domestiche, il 5% con amici e solamente un esiguo 1% con gli estranei. Le ragioni possono essere diverse e coinvolgono sia la sfera dell’evoluzione linguistica, come quella socioculturale. Tuttavia, i dati cambiano se si passa al Nord-Est, al Centro e al Sud Italia dove il dialetto mantiene dei numeri ben più favorevoli. Il trend delle regioni del Nord-Ovest è molto simile, un fattore decisivo è certamente lo spopolamento delle campagne e dei piccoli borghi dell’entroterra dove la parlata locale tende a conservarsi meglio.

Fin dagli anni ’70 il prof. Angelo Lupi, tra i personaggi più autorevoli in materia di dialetto, si trova alle prese con lo studio e la registrazione sia scritta che vocale del cerianasco, peculiare parlata di un piccolo borgo nell’eteroterma sanremese, il quale grazie al suo contributo venne dotato dei giusti fonemi, indispensabili per la corretta scrittura e pronuncia dei termini. Ripensando a quei primi anni di lavoro ci dice che: “la mia grande passione per la filologia, corpo principale dei miei studi universitari e per la quale nutro una profonda passione, mi ha portato con naturalezza verso lo studio del dialetto, così – continua – quando ho avvertito l’esigenza, presente in molti cerianaschi, di mantenere viva la nostra peculiare parlata iniziai a scrivere i libretti dei 'Canti ponentini', di modo che rimanesse qualche cosa di scritto e di facile consultazione. I cerianaschi hanno il grande pregio di amare le loro tradizioni e premono per volerle mantenere”.

In prima battuta il suo studio gli rivela che il dialetto ligure ha la grande capacità di condensare in un solo termine dei concetti che in italiano sono esprimibili solamente con lunghi giri di parole. Tuttavia, esso non è un linguaggio ricco di termini riguardanti la sfera sentimentale: “il nostro linguaggio dialettale è piuttosto limitato se si vuole fare riferimento alla dolcezza o al sentimento. Al contrario – aggiunge – si trovano molteplici sfumare terminologiche per la descrizione del lavoro quotidiano, legato alla campagna e ai mestieri di un tempo”. Questo risultato è di facile comprensione, basti pensare che non molti anni fa la maggior parte delle famiglie si componeva di contadini equipaggiati di una scarsa scolarizzazione, in molti avevano appena la quinta elementare. La terminologia appropriata per l’espressione dei sentimenti deriva, generalmente, dallo studio dei grandi letterati che il contadino, per lo più, non ha la fortuna di conoscere. Vi sono anche della eccezioni, come quella di Antonio Crespi poeta contadino a cui si devono molti canti della tradizione cerianasca.

Il passare del tempo e l’evoluzione della società attraverso i suoi tratti più tipici, come il forte ingresso dell’italiano nella vita quotidiana, la maggiore scolarizzazione, la televisione e il parziale abbandono della vita in campagna, hanno fatto in modo che molti termini di quel grande dizionario dialettale si siano persi: “negli anni 50 – spiega – si iniziò a parlare in italiano ai propri figli, prima di allora era accaduto solo nel caso della nipote del medico di paese. In seguito, in molti iniziarono a praticare maggiormente la lingua nazionale con i loro figli, pensando potesse essere d’aiuto per lo studio scolastico”. Il risultato fu che si iniziò a parlare un italiano molto scorretto dal momento che i genitori, in alcuni casi anche i maestri di paese, non conoscevano l’italiano in modo tale da poterlo insegnare ai propri figli. Vennero così miscelati assieme italiano e antichi termini dialettali, creando degli ibridi che ancora oggi si possono sentire: “apprendo dei miei vecchi quaderni scolastici – mi confida – si possono trovare degli esempi, sfuggiti persino alla correzione del maestro dell’epoca, forse anche lui alle prese con una nuova lingua”.

Passando alla riflessione sul futuro mi dice che: “non so se il dialetto abbia gli anni contati. Il fatto che ogni tanto qualcuno si interessi alla sua salvaguardia mi fa ben sperare. La lingua, in ogni sua forma, è una ricchezza e conoscere il senso di parole tipiche, che esprimono un significato antico, riveste senza alcun dubbio un elemento di pregio per la propria cultura personale, in modo particolare se si vuole mantenere un forte legame con il territorio. Oggi parliamo spesso di lock-down come di recovery fund, ci esprimiamo in inglese nonostante esistano i termini italiani adeguati, il dialetto come l’italiano viene minacciato continuamente da lingue di più ampio uso. Io resto fiducioso – conclude – a meno che non si perdano in toto le nostre tradizioni secolari. Queste hanno bisogno del linguaggio appropriato per rimanere autentiche e il dialetto è la lingua in cui da lungo tempo si esprimono i momenti sociali più profondi della nostra comunità”.

Stefano Martini

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