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Botanicando | 21 luglio 2025, 07:35

Verde, frutta e vecchie usanze: quando mangiavamo 'pan e fighe' e ci chiamavano 'figoni'…

Venerdì prossimo alle 19 al Floriseum di Villa Ormond se ne parlerà e si potranno gustare questi dolci frutti con il casereccio “pan de fighe”

Verde, frutta e vecchie usanze: quando mangiavamo 'pan e fighe' e ci chiamavano 'figoni'…

Un tempo, nelle campagne di Sanremo e dintornipan e fighe (pane e fichi) era un cibo quotidiano sulle tavole nelle calde giornate d’estate. Ma anche d’inverno non mancavano i gustosi “fichi secchi”. Bianchi, neri, biondi, grossi o piccoli, freschi o essiccati, facevano parte della dieta contadina e signorile. Non a caso i liguri ponentini venivano chiamati anche figoni, proprio per il loro rapporto con questi dolci frutti, che poi frutti non sono! Ma, allora, se non sono frutti, cosa sono? Una stravaganza botanica? Al riguardo, è curioso annotare che quello che anche in Riviera è impropriamente chiamato frutto (figa), in realtà, è un falso frutto (siconio), tappezzato all’interno da piccoli fiori e comunicante verso l’esterno con una minuscola apertura.

Quindi, contrariamente al senso comune, i frutti non sono le fighe, bensì i "granellini" contenuti al loro interno, frammisti alla polpa. Ma non è tutto! Il fico ci confonde anche con la sessualità…Il fico comune comprende due forme biologiche: il fico e il caprifico, che per secoli hanno generato curiosità e non pochi dubbi tra i botanici. Una con “falsi frutti” commestibili e l’altra non mangiabile, in quanto asciutta e stopposa. Quest’ultima è chiamata caprifico, e Plinio ci tramanda la singolare influenza che questa pianta esercitava sulla maturazione dei fichi mangerecci, senza comprenderne bene il vero motivo. L’enigma è rimasto insoluto per secoli nell’intimità delle tre tipologie di infiorescenze che si succedono durante l’anno. La sequenza dei falsi frutti del caprifico è strettamente legata alla curiosa e, allo stesso tempo, complessa biologia di una piccola vespa (Blastofaga psenes), che assolve la funzione di impollinatrice. Nelle regioni mediterranee, in tarda primavera, nelle ore più calde del giorno, è possibile osservare talvolta questi minuscoli moscerini neri che volano in prossimità dei caprifichi e cercano di guadagnare, con una certa fatica, la cavità alla loro base.

Il fico può essere impollinato naturalmente soltanto da questo piccolo insetto, che a sua volta può riprodursi esclusivamente in presenza dei ricettacoli dei fichi. Ognuno dei due ha quindi bisogno dell’altro per garantirsi la naturale riproduzione. La piccola vespa affronta questa introduzione forzata per poter deporre le uova nei fiori femminili interni, predisposti ad accogliere l’ovideposizione e consentire, al loro interno, il completamento del ciclo biologico. La sequenza si rivela senza dubbio complessa e si svolge in funzione della diversa sessualità tra fico domestico e caprifico. Pertanto, troviamo in natura due tipi di fichi: l’uno funzionalmente maschio, impollinatore e non commestibile (caprifico): l’altro funzionalmente femminile e mangereccio (fico domestico). Da questa diversità è nata l’antica pratica della caprificazione, con la posa sui rami del fico domestico di rami di caprifico con profichi portanti le blastofaghe impollinatrici.

La pratica prevede di cogliere siconi interi, in numero vario, talvolta anche 20 e infilzarli ad un giunco o filo di iuta, e appenderli ai rami della pianta che si vuole caprificare. Questa pratica non è necessaria per la maggior parte delle cultivar domestiche, che possiedono fiori longistili sterili e raggiungono la maturazione pomologica senza l’ausilio della piccola vespa impollinatrice. Vi sono però alcune varietà bifere che per assicurare la produzione di forniti necessitano della caprificazione, altrimenti i frutti cadono prematuramente. Agli inizi del XIX secolo in Riviera si coltivavano almeno 19 varietà di fichi diversi, mentre nella vicina Provenza se ne contavano circa 60! A Sanremo possiamo ancora gustare alcune di queste vecchie varietà, come la Beluna, Brigasotte, Col de dame (Figu d’Adamo, Pissalutte, oltre al conosciutissimo Dottato o Calabrese. 

La bontà dei fichi e la loro vendita, freschi o essiccati, era un’attività economica talmente importante nel Ponente ligure, che la nostra regione era chiamata “figonia” e i ponentinifigùi”. Oggi il termine “figùn” è quasi scomparso, anche se talvolta riemerge come attributo, un po’ scherzoso nel basso piemonte. Girolamo Rossi nel Glossario Medioevale Ligure cita il curioso termine “figùn”, per indicare 'venditore ambulante e mangiatore di fichi', ma anche girovago e perdigiorni. Per chi volesse saperne di più, venerdì 25 luglio alle 19 al Floriseum di Villa Ormond si parlerà di “fighe” e “figui” e si potranno gustare questi dolci frutti con il casereccio “pan de fighe”.

Quella di venerdì sarà una conferenza con degustazione e musica e si svolgerà nel giardino del Floriseum di Sanremo (Museo del Fiore, in corso Felice Cavallotti 113) con inizio alle ore 19. Relatore sarà Claudio Littardi con l'accompagnamento musicale ad opera di Renzo e Vittorio De Franceschi (fagotto e clarinetto).

“Un tempo - ha detto il presidente della fondazione Alberto Guglielmi Manzoni, che presenterà l’evento - nelle campagne di Sanremo e dintorni ‘pan e fighe’ (pane e fichi) era un cibo quotidiano sulle tavole nelle calde giornate d’estate. Bianchi, neri, biondi, grossi o piccoli, freschi o essiccati i fichi facevano parte della dieta contadina e signorile. Non a caso, i liguri ponentini venivano chiamati anche figoni, proprio per il loro rapporto con questi dolci frutti, che poi frutti non sono! Di questo parlerà Claudio Littardi, che ci illustrerà la misteriosa e segreta botanica del fico. Sarà poi una gustosa occasione per assaggiare alcune delle varietà di fichi più conosciute e apprezzate del territorio, accompagnando la degustazione con il tradizionale ‘pan de fighe’ condito con gli antichi sapori di miele e formaggio locale. Questo evento mette insieme storia del territorio, botanica, cibo e musica. Si potrebbe dire: una sinestesia di emozioni. Nell’arco di 2 ore saranno solleticate tutte e cinque le sfere sensoriali di ognuno di noi: vista, olfatto, gusto, tatto e udito”.
 

Claudio Littardi

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