Attualità - 30 settembre 2018, 09:00

Viaggio nella storia della Valle Roya: il trattato di pace del 1947, appena firmato già cambiato

L'importanza dell'aspetto internazionale della vicenda, per collocarla all'interno del Trattato di Pace del 1947, definito "il trattato dalla vita breve".

Viaggio nella storia della Valle Roya: il trattato di pace del 1947, appena firmato già cambiato

Dopo aver visto come le due città della Valle Roya, Briga e Tenda, fossero così importanti per la Francia, dopo avervi fatto conoscere l'interesse che gli Stati Uniti avevano nella vicenda come alleati italiani alla luce dei dispacci conservati presso l'istituto storico della Resistenza di Cuneo, dopo avervi raccontato del famoso “Comité de Rattachement” fortemente voluto dal Presidente Francese Charles De Gaulle, vi raccontiamo oggi del cuore della vicenda ovvero del Trattato di pace del 1947.

L’esito più importante e che qui ci preme del Trattato di Parigi è quello della cessione dei territori di Briga e Tenda alla Francia. Le sorti del confine occidentale del Piemonte si decisero in sedi autorevoli.

Fra il 1945 e il 1947, i capi di Stato delle tre potenze vincitrici si erano incontrati a varie riprese per fissare l’assetto futuro del pianeta. Protagonisti assoluti della scena, i tre grandi - Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica – organizzano conferenze a Teheran nel novembre 1943, a Québec nel settembre 1944, a Yalta nel febbraio 1945 e a San Francisco nell’aprile 1945, dove 50 paesi dettero origine all’ONU.

In Europa, una volta terminata la guerra, gli incontri proseguirono a Potsdam e a Londra nel settembre dello stesso 1945. Proprio a Londra sedettero per la prima volta anche Francia e Cina. E qui iniziò il confronto sui futuri trattati di pace.

Ma come si arrivò alla formulazione definitiva del trattato di pace del 1947?

Ricordiamo anzitutto che la bozza del trattato di pace era stata preparata dagli inglesi che avevano un’aspettativa fondamentale: le frontiere italiane andavano ridisegnate. Accoglievano l’ipotesi che un’Italia non fascista potesse aderire alle Nazioni Unite ma si dicevano piuttosto perplessi di fronte al desiderio americano di “Trattare gli italiani da adulti”.

Fin dall’inizio era dunque già deciso che l’Italia avrebbe potuto esprimere il punto di vista sul proprio destino solo dopo che fossero già stati sentiti tutti gli altri, ovvero nell’ordine: Dominions (in particolare Canada ed Australia), Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Grecia, Jugoslavia, Etiopia.

Era fuori di dubbio inoltre che l’Italia avrebbe dovuto cedere territori metropolitani e d’oltremare, che avrebbe dovuto disarmare e pagare riparazioni. Era necessario non compromettere la stabilità interna e l’economia, ma era altresì doveroso punire gli italiani con signorilità, senza umiliazione, tenendo conto della loro “suscettibilità nelle questioni di forma

Il Trattato fu dunque un diktat imposto dai vincitori, come si diceva a quel tempo? Oppure soltanto l’amara conferma che l’Italia non avrebbe più giocato un ruolo di primo piano nemmeno fra le medie potenze?

Le speranze italiane oscillavano tra la speranza di un riconoscimento della partecipazione alla guerra contro la Germania, condotta con il contributo dei partigiani ed il piccolo ricostituito esercito del Sud, fino alla convinzione che i confini potevano essere nuovamente messi in discussione.

Le frontiere italiane, fissate a fatica nel primo dopoguerra, erano frutto di interessi economici. Nel 1945 la situazione era però più complicata che in passato: le questioni politiche la facevano da padrona nei confini orientali; in Alto Adige erano più gravi le questioni etniche mentre al confine con la Francia i principali interessi erano le risorse idroelettriche. Le rivendicazioni francesi, citate nel gollista Memorandum di Algeri, influivano non poco e preoccupavano l’Italia.

In occasione della citata riunione di Londra del settembre 1945, nonostante le voci sempre più insistenti di mire territoriali della Francia verso l’Italia, gli alti burocrati del ministero degli esteri italiano sembrarono non rendersi conto della sconfitta subìta, ma erano convinti, al contrario, di potere ancora discutere alla pari con le grandi potenze: ovviamente nulla di più errato. Negli stessi giorni, l’ambasciatore italiano a Parigi (il futuro presidente della Repubblica Giuseppe Saragat) riferisce a De Gasperi che De Gaulle era pronto a rinunciare alla Valle d’Aosta e a Susa ma non ai territori di Briga e Tenda. In sostanza, qualunque idea di coinvolgimento dell’Italia nelle trattative dei Grandi ben presto sfumò anche se la conferenza di Londra si concluse con un formale rinvio di tutte le questioni relative all’Italia.

Tra il 25 aprile e l’11 maggio 1946, la conferenza dei ministri alleati si riunì nuovamente – questa volta a Parigi– in un clima più aspro a causa dello scontro in atto tra occidentali ed Unione Sovietica. Era chiaro a questo punto che Tenda e Briga sarebbero andate perdute. A sorpresa, e contrariamente alle richieste italiane, venne decisa anche l’internazionalizzazione di Trieste. Si discusse inoltre di altri temi caldi quali la riduzione della flotta, il destino delle colonie e la questione dell’Alto Adige.

Le notizie parigine provocarono disordini di piazza ed accuse di eccessiva arrendevolezza al governo De Gasperi il quale aveva mantenuto ad interim il ministero degli esteri.

L’ultima sessione della conferenza parigina iniziò il 29 Luglio 1946 al Palais du Luxembourg. La bozza di trattato che fu consegnata all’Italia cancellò le ultime illusioni. Il 3 agosto giunse a Roma la notizia che il governo italiano sarebbe stato invitato a presentare le proprie osservazioni ma con una forte limitazione: non era autorizzato a proporre emendamenti in quanto ex nemico. A questo punto si infittirono le consultazioni tra i membri della delegazione italiana in vista del discorso che De Gasperi avrebbe tenuto di fronte alla conferenza internazionale. Dopo giorni frenetici, il premier tenne un discorso nel pomeriggio del 10 agosto della durata di 40 minuti.

Una nota studiosa della vicenda commenta le parole di De Gasperi facendo presente che l’inizio del discorso era apparso brillante e convincente, trasmettendo ansia, dolore, angoscia, sentimenti che accomunavano tutti gli italiani per le conseguenze del Trattato. Le parole dello statista trentino perdevano però smalto nel momento in cui egli trattava gli argomenti della nuova democrazia: era chiara la mancanza di fiducia nel futuro. Il discorso era pieno di dettagli e minuzie e come tale, dunque, appariva più un intervento da commissione e non da Assemblea Plenaria perché di fatto era la cronaca di una sconfitta annunciata.

Ma i Grandi non erano concentrati sulle vicende italiane e la sostanza delle decisioni rimase quella prospettata all’origine. Qualche giorno più tardi, De Gasperi tornò a Roma mentre i funzionari del ministero degli esteri proseguirono nei contatti con le altre delegazioni nel tentativo di moderare il diktat. Ma l’unico successo venne dalla definizione dei confini con l’Austria, altro Paese sconfitto e quindi in condizioni di assoluta inferiorità come l’Italia. La questione fu superata con un progetto di larga autonomia a favore della minoranza di lingua tedesca, il cosiddetto accordo De Gasperi-Gruber firmato a Parigi il 5 settembre 1946 che sarà poi preso a modello per analoghe situazioni.

Nei primi del dicembre 1946, dopo 15 mesi di incontri e polemiche, i negoziati fra i Paesi vincitori e i cinque Paesi sconfitti si chiusero finalmente: tra questi ultimi, oltre all’Italia figuravano la Romania, l’Ungheria, la Bulgaria e la Finlandia. Anche sulla spinosa questione di Trieste si era raggiunta un’intesa con la creazione di un vero e proprio Stato (il futuro Territorio Libero di Trieste) affidato al controllo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

I testi dei trattati furono definiti nelle prime settimane del gennaio 1947 quando si fissò anche la data per le firme di rito: il 10 febbraio. Proteste e manifestazioni, come vedremo più avanti, si tennero quel giorno in tutto il Paese esprimendo il malessere generale della nazione, convinta di aver subito una pace ingiusta e severa.

L’Assemblea Costituente sospese la seduta per trenta minuti, mentre il ministro Sforza lesse alla radio una nota del governo: “Il nostro dolore è muto”.

Nel 2004, il Parlamento votò la legge istitutiva della giornata del ricordo da celebrarsi ogni anno; il 10 febbraio sarà conosciuto come il giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le altre vittime delle Foibe, dell’esodo delle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati e, in generale, della complessa vicenda del confine orientale. Tuttavia nessun accenno venne fatto sulla scelta della data, proprio quella della firma del trattato, cui fece seguito anche l’allontanamento da Tenda e Briga degli italiani che vi si erano insediati nel periodo tra le due guerre. Un evento non equiparabile all’esodo massiccio degli istriano-dalmati ed alla tragedia delle foibe ma nondimeno doloroso per chi dovette lasciare la valle della Roya. Un caso classico di rimozione della memoria collettiva.

Redazione

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