Attualità - 11 agosto 2017, 09:31

La storia dei paesi della nostra provincia: Andrea Gandolfo ci racconta quella di San Bartolomeo al Mare

Dopo essere stato un possedimento dei Clavesana, il paese fu a lungo soggetto alla Repubblica di Genova, prima di passare al Regno di Sardegna e quindi al Regno d’Italia.

La storia dei paesi della nostra provincia: Andrea Gandolfo ci racconta quella di San Bartolomeo al Mare

Proseguendo la sua storia dei paesi imperiesi, il matuziano Andrea Gandolfo ci raccontare la lunga e secolare storia del borgo marinaro di San Bartolomeo al Mare, che affonda le sue radici nella preistoria per giungere fino ai giorni nostri. Dopo essere stato un possedimento dei Clavesana, il paese fu a lungo soggetto alla Repubblica di Genova, prima di passare al Regno di Sardegna e quindi al Regno d’Italia.

Mel corso delle fasi più antiche dell’età preistorica, anche se non ne sono rimaste tracce significative come in altre zone della costa ligure, il territorio dell’attuale San Bartolomeo al Mare fu presumibilmente abitato da tribù di cacciatori e agricoltori, dediti in particolare alle attività venatorie e alla raccolta dei frutti spontanei della terra. Nella successiva età preromana la fascia costiera della Valle Steria rimase spopolata in quanto la maggior parte della popolazione preferiva vivere in casali sparsi, veri e propri tuguri eretti con pietre assestate a secco, mentre numerosi abitanti dell’entroterra vivevano nei castellari, primitive strutture fortificate protette da una o più cinte murarie, dove trovava rifugio tutta la popolazione della zona circostante in caso di pericolo. Successivamente la zona dell’odierna San Bartolomeo fu popolata dai Liguri Ingauni, che intrattennero stretti rapporti commerciali con i Cartaginesi fino a quando non entrarono anch’essi nell’orbita romana in seguito ad un trattato stipulato nel 201 a.C. che permise loro di ottenere favorevoli condizioni di pace. Dopo la vittoria del console Lucio Emilio Paolo sulle tribù del Ponente ligure nel 181 a.C., il comprensorio sambartolomeese fu gradualmente romanizzato fino alla concessione della cittadinanza romana da parte di Cesare nel 45 a.C., quando gli abitanti del municipium di Albenga, nel quale era compreso anche il territorio di San Bartolomeo, furono iscritti alla tribù Poblilia. All’epoca della conquista romana la valle Steria era inoltre interamente occupata dal Lucus Bormani, il bosco sacro dedicato dagli antichi Liguri alla divinità indigena Borman, assimilabile al dio Apollo dei Romani, che fece del luogo, come un vero e proprio santuario, il punto di riferimento religioso dell’intera Ingaunia. Importanti reperti risalenti all’età romana sono stati rinvenuti in località la Rovere, nel corso degli scavi delle fondazioni del nuovo edificio scolastico, dove sono venuti alla luce di resti di un insediamento che consente una più esauriente definizione del pagus sviluppatosi intorno alla mansio romana del Lucus Bormani, la stazione o luogo di tappa situata lungo il percorso della grande arteria litoranea costruita in età augustea e citata nella Tabula Peutingeriana e nell’Itinerarium Antonini. La struttura più importante del complesso è costituita dai resti di un edificio di forma allungata, composto da sei vani allineati e da un portico e un corridoio, che rappresenta un esempio unico nel patrimonio architettonico ed edilizio della Liguria in età romana, mentre poco distante si trovano i resti di un altro edificio, con un pozzo e tre grandi focolari esterni. Le strutture emerse dagli scavi, la grande quantità di resti fittili e di ceramiche, alcune delle quali finemente lavorate, e le monete ritrovate permettono quindi di collocare tra il I secolo a.C. e il II d.C. il periodo di vita del complesso, dalle cui caratteristiche è possibile dedurre una costruzione in relazione alle esigenze di vettovagliamento delle truppe in transito sulla strada costiera dirette verso le zone di operazioni militari situate in regioni più occidentali.

Nella frazione Chiappa è ubicata invece una colonna miliare dell’antica via Giulia Augusta, posta in opera fra il 13 e il 12 a.C. durante i lavori di rifacimento dell’antico tracciato voluto dall’imperatore Augusto. Il miliario è costituito da una colonna in pietra a forma di tronco di cono alta 124 centimetri, che reca in basso un’iscrizione, in parte erosa dal tempo. Il cippo rappresenta inoltre il primo miliario di Augusto procedendo lungo il percorso dell’antica strada da levante verso ponente, tanto che, nonostante minuziose ricerche, non ne sono stati rinvenuti altri fino a Ventimiglia. Un altro importante ritrovamento effettuato nella zona di San Bartolomeo è costituito dal rinvenimento dei resti di una nave oneraria romana, lunga circa trenta metri e larga sei, affondata nelle acque del golfo dianese, poco oltre un miglio di distanza dalla costa in corrispondenza dell’abitato della Rovere, dove si trova adagiata sul fondale ad una profondità di circa quaranta metri. La nave era adibita al trasporto del vino dalla Spagna ad Olbia; il liquido era contenuto in diversi grandi ziri di terracotta (dolia), alcuni dei quali aventi una capacità superiore ai tremila litri, oltre a due ziri di minori dimensioni (doliola), numerose anfore intere o in frammenti e un abbondante materiale facente parte della dotazione di bordo. Nel corso dei lavori di restauro del Santuario di Nostra Signora della Rovere sono inoltre venute alla luce due tombe, ad inumazione senza corredo, ricavate in un livello di terreno denso di frammenti fittili e laterizi romani, alcuni dei quali databili al II-III secolo d.C., mentre altre sepolture rinvenute nei pressi appaiono di poco più tarde. Altre tombe riferibili all’età tardoromana e bizantino-longobarda sono venute alla luce in frazione Pairola nell’estate del 1940: tra queste si segnala in particolare uno pseudosarcofago scavato nella roccia, ossia un tufo compatto e abbastanza tenero, sul quale posava un coperchio ricavato da un solo blocco della stessa roccia a forma di tetto a due spioventi, con palmette angolari stilizzate e all’interno svuotato a cupola. L’unico oggetto di corredo della tomba è costituito da una fiaschetta di argilla non dipinta, attualmente conservata nei magazzini del Museo Civico di Diano Marina. In base agli elementi archeologici rinvenuti è possibile datare in modo approssimativo la sepoltura di Pairola ad un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C., anche se la presenza di numerosi scheletri potrebbe attestare la continuazione della vita nella zona anche nell’Alto Medioevo. A Chiappa e a nord di Pairola esistono pure due fontane che la tradizione attribuisce all’età romana, ma sembra tuttavia più plausibile l’ipotesi che la loro presenza sia ricollegabile al fenomeno del riflusso della popolazione verso i luoghi di origine, accaduto nella tarda romanità o forse nei secoli dell’alto Medioevo. A San Bartolomeo pare inoltre che, verso la fine dell’Ottocento, siano state rinvenute delle monete romane a monte dell’abitato del capoluogo, lungo la strada carrozzabile che conduce verso l’entroterra. Significative tracce di laterizi, vari tegoloni, mattoncini circolari del tipo utilizzato nelle terme e nei calidarium delle ville romane, grandi massi squadrati dall’uomo e posati ordinatamente, costituiscono infine chiari segnali dell’esistenza di costruzioni dell’età romana nell’area a valle della linea ferroviaria tra la foce del torrente Steria e la Rovere. L’esistenza di tali costruzioni sembra ulteriormente suffragata dal fatto che la foce dello Steria costituiva all’epoca il luogo di approdo per le navi in transito e lo scalo marittimo del golfo dianese, dove esistevano probabilmente anche banchine, opere portuali e strutture simili per facilitare l’attracco delle imbarcazioni, allora particolarmente numerose data la preferenza accordata dai Romani al traffico via mare a causa della precarietà del sistema viario ligure, che presentava notevoli difficoltà di transito a differenza del trasporto marittimo in grado di assicurare una maggiore celerità nei collegamenti.

Caduto l’Impero romano d’Occidente nel 476, la zona di San Bartolomeo subì ripetuti saccheggi da parte di orde barbariche, soprattutto Vandali, fino a quando tutto il comprensorio passò sotto il controllo dei Bizantini, che favorirono la ripresa economica e sociale del territorio provvedendo anche alla costruzione di numerose fortificazioni ai valichi montani e lungo la fascia costiera. La successiva conquista della zona da parte dei Longobardi di Rotari nel 643 indusse molti abitanti del litorale a rifugiarsi sulle alture, dove si riorganizzarono in un complesso fortificato. Nel 774 i Franchi, subentrati ai Longobardi, organizzarono il territorio ligure in marche, a loro volta suddivise in comitati, ponendo così le basi del sistema feudale. Tra la fine del IX secolo e la prima metà del X la zona di San Bartolomeo venne ripetutamente devastata dai Saraceni, che costrinsero gli abitanti dei centri costieri a rifugiarsi sulle montagne per sottrarsi alle violenze e alle deportazioni dei pirati arabi, poi definitivamente sconfitti tra il 975 e il 980. Nel frattempo, in seguito allo smembramento dell’Impero carolingio, l’area dell’attuale San Bartolomeo al Mare venne inclusa, a partire dall’888, nel Comitato di Albenga, facente parte della Marca Arduinica. Secondo una linea politica apertamente favorevole alla Chiesa, la curtis quae dicitur Dianae, che includeva anche il territorio dell’odierna San Bartolomeo, venne donata nella prima metà dell’XI secolo al monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, come attestato dal diploma emanato il 23 gennaio 1033 dall’imperatore Corrado II il Salico, con cui egli donò, o forse confermò, al suddetto monastero il possesso della «corte» di Diano. Nel 1091, alla morte della contessa Adelaide di Susa, il territorio della «corte» dianese divenne quindi un feudo di Bonifacio Del Vasto, marchese di Savona, alla cui morte tutto il Comitato di Albenga passò nelle mani di Ugo, marchese di Clavesana, le cui proprietà vennero poi ereditate dai nipoti Guglielmo e Bonifacio. I Clavesana non godevano tuttavia del pieno possesso della signoria sulla Valle Steria in quanto dovevano spartirla con i monaci del convento benedettino di Santa Maria e San Martino della Gallinara, che ne avevano ricevuta una quota di possesso dai predecessori degli stessi marchesi. Il 12 novembre 1172 il marchese di Clavesana Bonifacio I sottoscrisse quindi una carta con gli abitanti del territorio dianese, in cui era compreso anche il comprensorio della Valle Steria e di San Bartolomeo, ai quali concesse il diritto di provvedere ad ogni esigenza della vita comunitaria, dall’amministrazione della cosa pubblica alla giustizia, oltre alla facoltà di esercitare le prerogative concernenti il consolato, la castellania, la bandita, la libertà di pescare, fare legna e tutte le altre attività consentite ad una piccola comunità feudale. Vent’anni dopo lo stesso marchese strinse un’alleanza con Genova, in base alla quale egli si impegnava a fornire a sue spese uomini armati al Comune genovese, nel caso questi ne avesse fatto richiesta, e a rispettare le leggi di Genova, alla quale giurava nello stesso tempo fedeltà, ricevendone in cambio protezione e l’assicurazione di un pronto intervento militare in caso di necessità. In quel tempo la Valle Steria era sottoposta alla giurisdizione del Castello di Cervo, dove Bonifacio aveva stabilito la sua residenza, anche se il marchese non godeva pienamente della signoria sui paesi della valle in quanto doveva spartire il suo dominio con il Comune di Albenga. Per dirimere l’annosa controversia derivante da questa comproprietà furono eletti due arbitri, che il 20 giugno 1196 emisero una sentenza sulla diatriba, in base alla quale venne riconosciuto al Comune di Albenga il diritto di ricevere alcuni tributi da parte della popolazione, che, dal canto suo, si impegnava a giurare fedeltà e far pace e guerra su ordine dei consoli, del podestà o del comune di Albenga, mettendo a disposizione uomini e armi, tranne che contro il marchese. I patti stabiliti nella suddetta sentenza arbitrale ebbero comunque breve durata poiché, già nel 1198, il comune di Albenga cedette tutti i suoi possedimenti nella Valle Steria, compresa l’attuale San Bartolomeo al Mare, ai Frati Ospedalieri Gerosolimitani di San Giovanni, l’autorevole ordine cavalleresco fondato a Gerusalemme ai tempi della prima crociata.

Intanto il marchese Bonifacio, constatata l’importanza dell’ordine di San Giovanni e dovendo condividere con esso la signoria della Valle Steria, decise di intavolare delle trattative con i Giovanniti, che si concretizzarono con un accordo, stipulato nel 1216, in forza del quale egli cedette loro la metà delle sue proprietà in Clavesana, ottenendo in cambio la facoltà di godere dei suoi possedimenti nella valle Steria con più ampi margini di libertà d’azione politica e amministrativa. Dopo la morte di Bonifacio I, avvenuta ad Andora nel 1221, i Dianesi, sobillati da Albenga in aperto conflitto con i Clavesana, decisero di attaccare la Valle Steria per estendere la loro egemonia sull’intero golfo dianese. Nel 1222 i Dianesi assaltarono quindi il castello di Cervo, ma furono prontamente respinti grazie anche all’intervento delle truppe della Repubblica di Genova, che li condannò in seguito ad una multa di ottocento libbre per aver cercato di conquistare i possedimenti dei Clavesana, mentre gli Albenganesi furono condannati a pagare duecento libbre per aver prestato aiuto ai Dianesi nel loro tentativo di assaltare il castello cervese. Divenuti ormai insanabili i contrasti tra Genova e i marchesi, che erano oltretutto oberati dai debiti e gravati dalle difficoltà amministrative derivanti dalla gestione dei loro domini, i nipoti di Bonifacio Ottone e Bonifacio II Tagliaferro di Clavesana vendettero al Comune genovese, rappresentato dal podestà Guiffredo di Piovano, il territorio dianese, compresi i paesi della Valle Steria tra cui San Bartolomeo, con atto rogato l’8 giugno 1228 nella chiesa di San Nicola a Diano Castello alla presenza dell’intero Parlamento dianese, che nell’occasione fu sciolto dal giuramento di fedeltà prestato agli stessi marchesi. Tale atto fu stipulato però senza l’autorizzazione da parte dell’imperatore Federico II, assolutamente necessario in quanto il Dianese era un feudo imperiale, sul quale tuttavia il governo genovese iniziò ad imporre pesanti tributi, al pari del vescovo di Albenga, che si avvaleva di un privilegio loro concesso dai marchesi di Clavesana. Nella Valle Steria, intanto, l’ordine di San Giovanni divideva ancora la signoria con i Clavesana, la cui discendente Caterina, dopo aver sposato nel 1320 il marchese Enrico Del Carretto, ricevette in eredità San Bartolomeo e gli altri paesi della valle, per cui, da quel momento, i Del Carretto assunsero anche il titolo di «Marchesi di Clavesana». I Del Carretto acquisirono così il dominio della metà del feudo di Cervo, mentre scomparivano dalla valle Steria i cavalieri di Rodi, come erano chiamati allora i Giovanniti, e subentrava nel dominio dei paesi valligiani il nobile casato genovese dei Doria. Dopo una serie di scontri armati tra le truppe genovesi e quelle di Antonio Doria, il 6 luglio 1345, in esecuzione di una sentenza emessa dal signore di Milano Luchino Visconti, Antonio Doria, che era stato incarcerato, riottenne la libertà e il possesso della parte del feudo di Cervo detenuto in comunione con i Del Carretto, i quali, in base ad un accordo da loro stipulato con il doge genovese Giovanni Murta il 18 maggio precedente, erano rientrati in possesso delle loro terre con tutti i diritti a loro spettanti, compresi quelli goduti sui paesi della Valle Steria. Il 3 giugno 1349 il delegato dei marchesi Del Carretto raggiunse un accordo con il governo genovese, in base al quale i marchesi avrebbero ceduto alla Serenissima la metà del luogo di Cervo e la sua giurisdizione, che comprendeva anche il territorio della Valle Steria, al prezzo di 12.500 lire genovesi; in seguito il doge rilevò ancora dai Del Carretto i diritti che avevano riscattato da Cassano Doria nel 1331, avviando nello stesso tempo delle trattative con Antonio Doria, il quale, il 25 settembre 1349, cedette alla Repubblica tutti i diritti e i redditi a lui spettanti nella valle di Cervo. Da questa data tutti i paesi della Valle Steria, compreso San Bartolomeo, seguirono le sorti di Genova, alla quale sarebbero rimasti strettamente legati sino alla fine del Settecento. Nel 1355, peraltro, un residuo della dominazione feudale era stato riconosciuto dall’imperatore Carlo IV, che, con un diploma emanato in quell’anno dalla corte imperiale, confermò ad Aleramo Del Carretto, marchese di Savona e di Clavesana, tutti i diritti precedentemente goduti sulla Valle Steria dai suoi avi.

Nel corso dei secoli della dominazione genovese la vita della piccola comunità di San Bartolomeo fu caratterizzata da una consistente crescita delle attività commerciali, industriali e agricole lungo la fascia costiera, con una diffusione particolare dei vigneti, una buona produzione di agrumi e fichi secchi e forse anche una precoce introduzione dell’olivicoltura. In campo amministrativo, la giurisdizione civile del mandamento del Cervo, che includeva anche il territorio dell’attuale San Bartolomeo al Mare, spettava ad un podestà nominato dal Senato della Repubblica e stipendiato dalla comunità, il quale, per quanto atteneva alle cause civili, seguiva le norme previste negli Statuti di Genova, mentre per quelle criminali si rimetteva al giudizio del podestà di Porto Maurizio. Il Consiglio ordinario amministrativo era invece composto da 48 membri (quattro Anziani, quattro Censori, quattro Ufficiali di sanità, quattro Estimatori e trentadue deputati), mentre ogni anno si eleggevano quattro revisori di conti per l’amministrazione dell’anno precedente e si eleggevano contestualmente altrettanti soggetti per l’anno successivo. Per gli affari di maggiore rilevanza era invece convocato il Parlamento generale, che poteva assumere le decisioni soltanto se vi partecipavano almeno ottanta rappresentanti della comunità. Durante il XVI secolo anche la popolazione sambartolomeese dovette affrontare il grave pericolo costituito dalle incursioni dei Barbareschi, che il 21 maggio 1557 assaltarono il castello di Cervo, ma non riuscirono ad espugnarlo per la strenua resistenza opposta loro dai Cervesi asserragliatisi nel maniero, da dove spararono numerose cannonate contro i pirati. Il pericolo rappresentato dalle incursioni barbaresche aveva inoltre provocato una lite tra la comunità di San Bartolomeo e quella di Cervo, in quanto la prima, che era una delle «ville» dipendenti da Cervo, si era rifiutata nel 1547 di fornire denaro e uomini al capoluogo per contribuire alla riparazione e fortificazione del locale castello, tanto da inoltrare una formale lettera di protesta al governo genovese per spiegare le ragioni del rifiuto opposto alle autorità cervesi. Al fine di dirimere pacificamente la controversia intervenne allora il governo della Serenissima che, accettate le scuse della comunità di San Bartolomeo, ordinò alle autorità cervesi di sospendere le richieste di denaro alla Villa; i Cervesi inviarono allora a Genova un loro rappresentante ufficiale, il sindaco Domenico Ferraro, che sostenne la legittimità del contributo che gli abitanti di San Bartolomeo dovevano versare al capoluogo, richiamando antiche consuetudini, tra le quali quelle contenute in uno speciale Statuto, da cui risultava che alla riparazione del Castello avevano sempre contribuito le Ville dipendenti, oltre all’antica usanza che quando suonava la campana a martello tutti gli abitanti delle Ville dovevano correre in aiuto a quelli del castello di Cervo. Sentita questa risposta del sindaco di Cervo alle lamentele dei rappresentanti della Villa di San Bartolomeo, il governo della Repubblica decise di approfondire ulteriormente la questione incaricando il commissario genovese di Porto Maurizio di effettuare altre indagini in merito alla questione. Espletati gli accertamenti richiesti, l’alto funzionario genovese scrisse infine una lettera, inoltrata al governo della Serenissima il 2 giugno 1547, nella quale si schierò a favore di Cervo sostenendo che gli abitanti di San Bartolomeo avrebbero dovuto contribuire in uomini e denaro a favore del capoluogo in quanto una sospensione degli aiuti sarebbe stata in quel momento estremamente nociva per la comunità cervese. A causa dell’ulteriore intensificazione delle scorrerie barbaresche, la comunità di San Bartolomeo avrebbe poi deciso di erigere una torre di difesa e di avvistamento nella fascia litoranea, dove nel 1585 venne appunto costruito il bastione di Santa Maria, che rientrava nel sistema di opere di avvistamento erette nel corso del XVI secolo tra Capo Berta e Capo Cervo a scopi prevalentemente difensivi, di cui costituiva un caposaldo di grande importanza strategica proprio il torrione di San Bartolomeo.

Durante il Seicento anche la zona di San Bartolomeo fu interessata dalla nuova usanza intrapresa da famiglie patrizie genovesi di acquistare vaste proprietà agricole, che venivano coltivate da famiglie locali in qualità di fittavoli, massari, coloni e fattori in rapporti con il proprietario tramite un amministratore, un procuratore o un agente e spesso anche tramite funzionari ecclesiastici, i quali godevano di un’ampia fiducia da parte di quelli che a Genova erano impegnati in altre occupazioni. Dopo l’introduzione della coltura dell’ulivo nelle terre del litorale dianese (un tempo tenute a «bandita») nel corso della prima metà del Cinquecento, i potenti casati di Genova, intravista la possibilità concreta di ricavare ingenti guadagni da una monocoltura così pregiata ma anche poco estesa nel Genovesato, tentarono di introdurre nella Valle Steria la grande proprietà terriera, che tuttavia non si sarebbe affermata per la diffusa tendenza dei contadini locali a preferire nettamente la piccola proprietà che alla fine avrebbe prevalso. Nel corso della successiva occupazione del Dianese e della Valle Steria da parte del re di Sardegna Carlo Emanuele III a partire dal settembre del 1746, il sovrano sabaudo insediò una nuova amministrazione, nell’ambito della quale San Bartolomeo fu sottoposta alla giurisdizione del Mandamento di Cervo, facente parte a sua volta del Commissariato di Albenga, con a capo il marchese Busca, poi sostituito nell’aprile del 1747 dal conte Bottia di Santa Croce, mentre alla guida del comprensorio di Diano-Cervo fu nominato, in qualità di podestà, il conte Tiberio Lascaris. La nuova amministrazione si preoccupò in particolare di tassare in modo pesante le proprietà dei nobili genovesi che si erano trattenuti sul posto, o di confiscare i beni di quelli che si erano rifugiati nella capitale della Serenissima, dimostrando così di essere nemici dei Savoia. Per queste ragioni si procedette alla compilazione di elenchi con nominativi di proprietari e località, da cui si può evincere le condizioni della realtà contadina locale, dove i sovrani sabaudi avrebbero voluto introdurre la grande proprietà terriera; tale tentativo, che non era riuscito ai marchesi di Clavesana, avrebbe invece ottenuto stavolta discreti risultati, anche se, dopo questa inchiesta, la situazione tornò alla fase precedente contrassegnata dall’estrema frammentazione delle tenute agricole. Dopo un anno di occupazione militare, durante il quale i soldati piemontesi e austriaci saccheggiarono le abitazioni di San Bartolomeo e degli altri centri della Valle Steria, nel 1748 le truppe piemontesi, in applicazione della clausole della pace di Aquisgrana, si ritirarono dal Ponente ligure; la popolazione della Valle Steria, rinfrancata per la fine del vessatorio regime di occupazione, si recò in pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora della Rovere, dove fece celebrare un solenne «Te Deum» alla Madonna, proclamata da Genova regina della città.

Dopo l’invasione del territorio ligure da parte delle truppe rivoluzionarie francesi nel 1794 iniziò anche per il comprensorio della Valle Steria il periodo dell’occupazione francese, che avrebbe portato a radicali trasformazioni nell’assetto politico e amministrativo della zona, soprattutto nel periodo successivo all’instaurazione della Repubblica Ligure, quando i comizi convocati nel 1798 modificarono sostanzialmente gli ordinamenti dell’antica comunità cervese, che perse definitivamente la sua supremazia sulle Ville dipendenti, tra le quali in particolare quella di San Bartolomeo, che si avviò a diventare Comune autonomo insieme a Pairola e Chiappa in qualità di frazioni. A capo dell’intera amministrazione locale venne allora creato il Cantone di Cervo, che estendeva la sua giurisdizione anche sulla Villa di San Bartolomeo e sulle sue frazioni, ed era retto da quattro membri nominati in seno alle rispettive municipalità e convocati dal giudice di pace, che era a sua volta affiancato da una giunta composta da tre assessori, nominati dal consiglio del Cantone. Dopo il periodo della dominazione francese, durante il quale San Bartolomeo fece parte del Dipartimento napoleonico di Montenotte, nel 1815 il borgo passò sotto il Regno di Sardegna insieme al resto della Liguria. Sottoposto alla giurisdizione della Divisione di Nizza, il paese entrò quindi a far parte della nuova provincia di Porto Maurizio dopo la cessione del Nizzardo alla Francia nel marzo del 1860. San Bartolomeo venne poi gravemente danneggiato dal terremoto del 23 febbraio 1887, quando crollò gran parte della chiesa parrocchiale, fortunatamente ormai vuota, anche se la caduta della parte più alta del campanile causò lo sfondamento del tetto, mentre si sfasciò completamente quello del vicino oratorio. Furono altresì distrutte la casa comunale e quella delle scuole pubbliche, mentre tutti i fabbricati furono resi dal sisma assolutamente inabitabili e inservibili, tanto che le autorità ne ordinarono la demolizione per la massima parte. Il terremoto registrò in paese due vittime, di cui una donna che morì sotto le macerie della propria casa, e cinque feriti, tra i quali i figli della suddetta signora e un’altra donna che riportò la frattura delle ossa ad un braccio e ad una gamba. Dopo il sisma anche la popolazione sambartolomeese, come quella di vari centri limitrofi, visse per diverse settimane sotto le tende, mentre il governo concesse un mutuo di 171.910 lire a novanta cittadini danneggiati dall’evento sismico, oltre a 76.160 lire destinate alla riparazione di edifici pubblici e privati, chiese, oratori e case canoniche, e al riattamento delle strade. Dopo gli anni della prima guerra mondiale, nel corso della quale caddero vari militari nativi di San Bartolomeo, il paese venne direttamente coinvolto nella guerra di Liberazione con la dislocazione nella zona del I Battaglione «G. Molineri», facente parte della I Brigata «Silvio Bonfante», poi sostituita, a partire dal 19 dicembre 1944, dalla I Brigata «Silvano Belgrano», mentre le forze nazifasciste avevano dislocato un plotone della 5ª compagnia in località «Cava di Poggiolo» (postazione di due mortai) nelle vicinanze del centro abitato. Tra i vari fatti che caratterizzarono il periodo resistenziale si segnalano in particolare lo scontro a fuoco verificatosi il 29 agosto del ’44 tra un gruppo di partigiani del 4º distaccamento della IV Brigata e una pattuglia di nazifascisti in perlustrazione nella zona di Chiappa, con l’uccisione di due militi del battaglione «San Marco» e di un soldato tedesco; la fucilazione del partigiano reatino Renato Vita presso il cimitero del paese il 23 agosto ’44; e la costituzione di un attivo nucleo resistenziale in paese da parte della dirigente delle Squadre di Azione Patriottica femminili di Diano Marina, la professoressa Vittoria Giobbia (Sanjacopo). Nel secondo dopoguerra la cittadina ha registrato un notevole rilancio delle attività legate alla floricoltura, con una consistente produzione di garofani, rose e strelizie, all’olivicoltura e soprattutto al turismo, che negli ultimi decenni ha assunto una decisiva importanza nell’economia locale con una ricezione particolarmente attrezzata, che può contare su numerosi alberghi, residenze e campeggi, alcuni dei quali in grado di soddisfare anche la clientela più esigente. Vari stabilimenti balneari e numerosi impianti sportivi completano il quadro delle strutture ricettive a San Bartolomeo al Mare, dove è anche possibile gustare i piatti tipici della cucina ligure e internazionale in apprezzati ristoranti e in locali caratteristici, mentre si possono effettuare piacevoli escursioni nei dintorni del paese, e in particolare al Prato delle Coppette, zona nota per la ricchezza dei fiori, specie narcisi, al Passo del Merlo, ove è possibile ammirare il suggestivo panorama della Valle del Merula e del mare, e al Colle Mea, che costituisce un ameno e interessante itinerario montano.

Redazione

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