- 30 ottobre 2016, 07:25

La vera storia di Oscar Rafone: Un gesto molto eloquente (cap.36)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line

La vera storia di Oscar Rafone: Un gesto molto eloquente (cap.36)

Mio padre era morto. Non me lo dissero subito. Dovetti aspettare una settimana che il direttore della comunità  decidesse che era passato abbastanza tempo perché potessi sopportare un altro trauma. Ma io l'avevo capito già il giorno che ero stato interrogato.

— Fate venire il padre del ragazzo, — aveva gridato il maresciallo in una specie di citofono mentre mi interrogava. Eravamo in caserma, in un ufficio piccolo e con le pareti piene di fotografie di carabinieri a cavallo, in moto, sugli sci; ce n'era anche uno con pinne e maschera da sub.

All'inizio il maresciallo non mi voleva credere. Mi chiamava ragazzo. Mi diceva: — Ragazzo, stai attento a quello che dici perché qui le cose sono serie. Con un'accusa di furto aggravato non te la cavi con due calci di tuo padre nel sedere.

Io non sapevo con precisione dove avevano messo Zamina; ancora un paio di volte l'avevo sentita urlare molto forte dal piano di sotto che lei non sapeva niente. Poi una voce d'uomo, urlando più forte di lei, le aveva detto qualcosa tipo "non ti permettere più e porta rispetto!" dopo di che non sentii più né la sua voce né quella di altri che la sgridavano. Il maresciallo uscì dall'ufficio per qualche minuto e quando ritornò a sedersi dietro la scrivania emise un lungo sospiro e disse — Ok, raccontami come hai fatto.

Cominciai dalla mattina che ero andato a scuola con la mazza da baseball. Poi gli raccontai come avevo distrutto la moto di Martini e dove avevo aspettato che la segretaria lasciasse l'ufficio per potermi intrufolare in segreteria, aprire il cassetto, prendere la busta coi soldi e svignarmela. Il maresciallo continuava a mostrarsi perplesso. Lo vedevo da come arricciava le labbra e il naso ogni volta che aggiungevo un particolare. Confermai che sapevo da almeno un mese che la scuola stava raccogliendo i soldi per una gita di tre giorni a Roma, che avrebbero partecipato tre classi con una cinquantina di ragazzi e che questo significava parecchi soldi da raccogliere. Quando mi domandò perché l'avessi fatto, fu facile rispondere che non volevo dare un altro dispiacere a mio papà, visto che di guai gliene avevo procurati già troppi, costringendolo a ripagare la moto sfasciata di Martini. Fu a quel punto che un carabiniere bussò alla porta e chiese al maresciallo se poteva uscire un momento fuori dall'ufficio. Era lo stesso carabiniere che aveva ricevuto l'ordine di andare a chiamare mio padre. Io continuavo a guardare le fotografie alle pareti, ma con la coda dell'occhio nello spiraglio aperto della porta dell'ufficio vidi abbastanza chiaramente il carabiniere portarsi il dito indice alla bocca e piegare il pollice. Sentii il maresciallo dire azzo! Proprio così. Poi rientrò in ufficio e invece di tornare dietro la scrivania prese una sedia e venne a sedersi accanto a me. Continuò a farmi ancora delle domande, ma era un po' diverso da prima. Io non gli chiesi niente, ma con una parte del cervello, mentre rispondevo alle sue domande, ripensai a mio padre, a come l'avevo visto la sera prima, e a quella maledetta pistola carica che avevo lasciato sul tavolo della cucina.

 

Enzo Iorio

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