Al Direttore - 31 maggio 2020, 16:27

Epidemie nel Ponente ligure tra superstizione, preghiera, appelli alla ragione e al rispetto delle norme di profilassi

Nel racconto di Casalino il caso di Padre Teofilo Rinaldo di Sospello e del suo invito ad immolarsi per assistere i contagiati

Epidemie nel Ponente ligure tra superstizione, preghiera, appelli alla ragione e al rispetto delle norme di profilassi

‘Uomo Nero della Superstizione Paurosa, Belva Nascosta nell'Antro, Untori, Streghe Massime, Streghe Avvelenatrici, Ebrei’, tutte ‘categorie’ colpevoli di suscitare la peste durante l'epidemia del 1347-1348 nel Ponente ligure, specialmente a Ventimiglia e a Dolceacqua. Situazioni non molto diverse, tuttavia, si verificavano nel resto d'Italia e d'Europa. Come si è già ricordato in precedenza, nell'occasione, Papa Clemente VI, animato da spirito di cristiana carità, intervenne con una Bolla a sedare i bollenti spiriti che identificavano in malcapitati individui i responsabili dell'invenzione e della diffusione del morbo. Nel documento pontificio si invitava prelati e parroci a spiegare alla gente che ‘costoro nulla avevano a che fare con l'origine della malattia e il suo contagio’ e che la pestilenza non era attribuibile a ‘nessuna siffatta presunta manifestazione di magia nera’. Inoltre la Chiesa combatté l'altro comune pregiudizio (che era fonte di odio sociale) che la peste risparmiasse i ricchi, accanendosi solo ‘sugli umili’.

Anche le cronache di Ventimiglia e del Ponente riportavano la voce popolare insistente (ma infondata scientificamente) che ‘gli abbienti non erano soggetti al contagio, perché si ritiravano in luoghi ben isolati, ameni e guardati da uomini sani, fidati e provvisti di armi’ La realtà era, al contrario, quella, sempre più attestata dagli scritti e dalle testimonianze di storici e di autorità nel corso delle epidemie, che ‘nessun rimedio risultava efficace’, non comprendendosene l'eziologia. Tra la preghiera, a cui si ricorreva per chiedere la protezione divina, e l'immagine della ‘Peste effigiata qual Mostro di una possibile Apocalisse pressoché inevitabilmente avverso uomini dediti principalmente al peccato’, stava l'atteggiamento di coloro che, pur non sottraendosi alle sollecitazioni della fede, investigavano sulla natura e l'origine delle pestilenze. La razionale impostazione del lavoro degli Ufficiali di Sanità del Ponente ligure, soprattutto di quelli del Capitanato di Ventimiglia, ebbe ragione degli scomposti ed inutili comportamenti di quanti si lasciavano cogliere dallo sconforto e dalla paura, ma anche da azioni non sufficientemente meditate.

Episodi estremamente drammatici dettati da frenesia, terrore e disperazione furono osteggiati dalle strutture del Capitanato intemelio e in genere dai vari Statuti Criminali del Ponente (a differenza di ciò che avvenne, invece, nel milanese) sia durante la peste del 1579-1580 che durante quella catastrofica del 1656-1657, che risparmiò, comunque, il Ponente dal contagio, che rimase circoscritto tra Chiavari e Savona, sterminando quasi totalmente la popolazione genovese e dei dintorni. Erano in genere promosse dalle autorità iniziative volte a placare gli animi e a prevenire gesti irrazionali nei confronti di povere donne accusate di stregoneria, ma solo esperte nel suggerire antidoti naturali a base di erbe ed altre sostanze ritenute medicamentose. Si trattava di persone sinceramente non intenzionate a procurare il male altrui. Durante i processi per stregoneria, quale in particolare quello di Triora, emerse proprio la diffidenza verso questi rimedi naturali ritenuti concorrenziali alla medicina ufficiale, più ancora che l'accusa di commerci demoniaci. I lugubri presagi degli astrologici sul ritorno di terribili sventure erano altrettanto ricorrenti.

L'Aprosio, che pur indagava sulle influenze astrologiche sulle calamità, si poneva il quesito su come curare seriamente la peste. Gli Statuti Criminali, coordinati con gli Ufficiali Sanitari, erano, d'altra parte, più propensi a procedere all'esecuzione dei trasgressori delle norme di sanità, di sicurezza e di distanziamento sociale con l'uso della forca, che punire persone accusate genericamente di malefici. Dei gravi provvedimenti adottati contro la violazione del regime di sicurezza parla anche in un suo scritto sul ‘governo del contagio’ il celebre Cardinale Gastaldi, originario del Castello di Taggia, il quale ricoprì incarichi di vertice in Vaticano. Secondo quanto riferisce Domenico Antonio Gandolfo, la città di Ventimiglia ringraziò con una solenne funzione il patrono San Secondo Martire per averla preservato dalla spaventosa pestilenza del 1656-1657. Ma furono in molti ad attribuire il merito decisivo dello scampato pericolo agli interventi degli Ufficiali di Sanità del Capitanato intemelio. Il Capitanato era realisticamente più impegnato a ‘combattere i ritorni delle Superstizioni connesse specie alle fantasie su Untori demoniaci e Streghe Avvelenatrici conviventi con Satana’ e ‘a far rispettare le regole per la comune difesa dal contagio’, che a dedicarsi esclusivamente alle pratiche devozionali o ad inseguire ‘altre dicerie campate in aria’.

Non meno importante fu il ruolo svolto dal clero cattolico soprattutto durante la funebre tragedia della peste del 1656-1657, che provocò in Liguria una vera e propria strage, ma che nel resto d'Europa fu davvero micidiale, come ci riferisce anche lo scrittore inglese Daniel De Foe, che fu testimone degli effetti di quella pestilenza a Londra. Il ruolo attivo dei religiosi in Liguria veniva tradizionalmente svolto fin dalle precedenti esperienze epidemiche. Ma nel 1656 il clero supero' ogni limite di generosità. Sull'esporsi eroico per soccorrere gli appestati si pronuncio', in proposito, Padre Teofilo Rinaldo (o Raynaudo o Raynaud o Rainaldo), gesuita di Sospello durante l'epidemia del 1656-1657 e antecedenti. Il religioso sosteneva la tesi che i religiosi avrebbero dovuto prestare assistenza diretta agli appestati per autentica vocazione cristiana, anche a costo di andare incontro alla morte, stigmatizzando quella parte dei religiosi che si allontanava e si rifugiava in luoghi al sicuro e non soggetti a contagio. In proposito il sacerdote, che si considerava a tutti gli effetti italiano, come ci narra Girolamo Tiraboschi, per essere rimasto suddito sabaudo, nonostante la lunga permanenza in Francia. Egli affermava che nel corso della peste di Lione del 1620 i gesuiti, che si erano prodigati a fianco dei malati, erano stati premiati da Dio, conservando la loro vita.

Al contrario, quei preti o monaci, che pur si erano tenuti ben distanti dai focolai dell'epidemia, erano deceduti egualmente a causa della pestilenza. A sostegno della sua tesi aveva pubblicato un un'opera dal titolo ‘De Martyrio per pestem’, nella quale dichiarava senza mezzi termini che i sacerdoti avrebbero dovuto non attenersi alle normative di profilassi a vantaggio degli appestati per cercare ed accettare volontariamente la morte per contagio come un martirio. La pubblicazione cadde subito sotto l'attenta vigilanza della Santa Inquisizione di Ventimiglia, della quale era Vicario proprio Angelo Aprosio, finendo, per un certo tempo, nell'elenco dei libri proibiti con l'accusa di eresia per un comportamento ritenuto autolesionista e non autenticamente caritatevole.

Pierluigi Casalino.

Redazione

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