Al Direttore - 19 agosto 2017, 07:39

Sanremo: nelle parole dello storico Andrea Gandolfo il dramma della deportazione di sanremesi il 16 ottobre 1944

“Le colonne dei cittadini si avviarono dunque nella piazza prescelta, mentre i tedeschi avevano sbarrato tutte le strade adiacenti e chiuso le porte delle case e dei negozi per scongiurare qualsiasi tentativo di fuga da parte delle persone avviate verso la piazza”

Lo storico Andrea Gandolfo

Contemporaneamente all’attacco in forze delle truppe tedesche lungo l’arco delle Alpi Liguri per scardinare le postazioni delle brigate partigiane, altri reparti si recarono a Sanremo per compiere il più grande rastrellamento di tutto il periodo dell’occupazione tedesca della città.

I preliminari del rastrellamento iniziarono già nelle prime ore della mattinata del 16 ottobre 1944, quando alcuni reparti delle SS, giunti appositamente da Savona, bloccarono le più importanti arterie di accesso al centro cittadino, piazzando in tutti gli incroci delle strade diverse mitragliatrici.
Nello stesso tempo altre pattuglie tedesche effettuavano perlustrazioni a tappeto in varie abitazioni, situate soprattutto nel quartiere della Pigna, allo scopo dichiarato di stanare partigiani nascosti e trovare armi e munizioni, ma in realtà per catturare il maggior numero possibile di uomini sani al fine di deportarli.

Nonostante gran parte della popolazione fosse sfollata nelle località limitrofe a causa dei continui bombardamenti, molti cittadini erano soliti rientrare ogni mattina in città per svolgere il loro lavoro, tanto che furono numerosi i sanremesi fermati dai nazisti, che, dopo averne fermati e perquisiti parecchi con pochissimi rilasciati, li fecero radunare nel centro di raccolta di piazza Eroi Sanremesi.

Le colonne dei cittadini si avviarono dunque nella piazza prescelta, mentre i tedeschi avevano sbarrato tutte le strade adiacenti e chiuso le porte delle case e dei negozi per scongiurare qualsiasi tentativo di fuga da parte delle persone avviate verso la piazza. Durante il percorso un anziano sanremese, che non aveva risposto all’ordine di fermarsi in quanto non udente, venne freddato a bruciapelo da un soldato tedesco.

Radunato il gruppo dei rastrellati in piazza Eroi Sanremesi, circondata da SS armate di mitragliatrici e mitra, i tedeschi cominciarono a richiedere ad ognuno i documenti di identità, procedendo contestualmente ad un accurato esame personale dei fermati. Intanto nella piazza si vivevano momenti di paura e angoscia, mentre un giovane di Grisolero ma residente a Sanremo, dopo uno sbrigativo interrogatorio dovuto all’assenza ingiustificata di documenti, era passato per le armi seduta stante.

In seguito a un primo controllo, durante il quale furono rilasciati parecchi cittadini, circa 150 uomini vennero definitivamente trattenuti. Verso le 13,30, passata la mattina in un clima di profonda inquietudine per la sorte dei fermati, i rastrellati, fatti passare tra due reparti di SS con le armi puntate, furono caricati su due autocarri con rimorchio, sui quali salirono numerosi soldati germanici, mentre un altro autocarro con mitragliera faceva da scorta per impedire qualsiasi tentativo di fuga da parte dei prigionieri.

La popolazione, che aveva assistito impotente alla cattura e alla partenza dei fermati, rimase sgomenta di fronte a questo rastrellamento di loro concittadini e parenti partiti verso la destinazione dei campi di concentramento. In un passo del suo diario di guerra, il parroco di San Giuseppe don Pasquale Oddo così descrisse i momenti più drammatici del rastrellamento: «Il giorno 16 ottobre, svegliandomi, sentii un odore di sigarette e credevo proprio che qualcuno fosse entrato in casa. Affacciandomi alla finestra vidi presso la porta San Giuseppe e lungo Via Rocca, ufficiali e soldati armati, che si muovevano animatamente.

Appena terminato il coprifuoco, alle ore 6, discesi sulla strada e tosto mi si avvicinarono i soldati. Non furono soddisfatti di controllare i documenti e il permesso di circolare, rilasciato dall’autorità militare, ma mi fermarono, ingiungendomi di mettermi da parte e attendere. Lo stesso fecero con tutti i passanti; sicché il numero andava ogni momento ingrossandosi. È da notare che ciò che avevano fatto alla Porta di S. Giuseppe lo avevano ripetuto lungo la strada di accesso alla città vecchia.

Anzi qua e là avevano installato mitragliatrici e cannoncini. Gli arresti erano saliti a centinaia. Ad un certo momento ci incolonnarono e così ben scortati ci condussero sotto il ponte che porta alla Madonna della Costa. Ci perquisirono da capo a piedi e guai ai riluttanti! Intanto soldati, camicie nere, bersaglieri entravano in tutte le case, perquisivano, arrestavano uomini e i giovani e li conducevano in Piazza del Mercato [altro nome di piazza Eroi Sanremesi].

Avendo trovato qualche arma, anche semplicemente fucili da caccia, bruciarono parecchie case a San Costanzo, Via Cisterna e Via Palma. Ad un certo momento ci incolonnarono di nuovo e attraverso Via Porta S. Maria, via Capitolo, Montà ci condussero in Piazza del Mercato. Dopo il tragitto uccisero un vecchio che non rispose all’ordine di fermarsi perché era sordo. Si chiamava Guiscardi Sergio. In piazza del Mercato ci fu un altro controllo ed un’altra revisione dei documenti.

Un giovane, Turchetto Antonio di Angelo, nato a Grisolero, residente in Via Porta Candelieri, di anni 19, essendo stato trovato privo di documenti fu ucciso, all’inizio di Via Martiri della Libertà. I giovani fermati e perquisiti, una cinquantina, furono deportati in Germania. Verso mezzogiorno fummo lasciati liberi ed io celebrai la S. Messa nella parrocchia di S. Maria degli Angeli».

Intanto i rastrellati, dopo un viaggio travagliato, erano giunti nella tarda notte del 16 ottobre a Genova e trasferiti nei cameroni della IV sezione delle carceri di Marassi, dove passarono la notte sdraiati per terra. Il giorno successivo il direttore delle carceri fece ritirare denari, documenti e fotografie ai detenuti, che furono poi trasferiti alla III sezione e qui rinchiusi in tre o quattro per ogni celletta con una coperta ciascuno per potersi difendere dal freddo della notte. Una volta al giorno veniva inoltre distribuito il rancio, che consisteva in due mestoli di brodaglia in un unico recipiente, nel quale ogni detenuto avrebbe dovuto mangiare per mancanza di cucchiai.

Solo una decina di rastrellati riuscirono tuttavia, per diversi motivi, a farsi rilasciare da Marassi, mentre tutti gli altri, divisi in due scaglioni, furono avviati al campo di concentramento di Bolzano. La partenza del primo scaglione avvenne dalle carceri di Marassi alla fine di ottobre. Riuniti i detenuti nel piazzale antistante al carcere verso le due di notte, il primo gruppo venne fatto salire su due autocarri insieme ad altri detenuti, tra i quali anche un sacerdote e alcune prostitute.

Il viaggio fu, come al solito, estremamente disagevole anche per le pessime condizioni atmosferiche e l’abbigliamento praticamente estivo dei detenuti. Una volta giunti a Pavia, essendo crollato il ponte sul Ticino per i bombardamenti, tutti i passeggeri furono fatti scendere dagli autocarri e traghettati sull’altra sponda per essere nuovamente rinchiusi in altri autobus che li attendevano.

Arrivati a Bolzano nella notte del 1° novembre, i detenuti sanremesi furono introdotti nel lager attraverso un cancello e cacciati a forza in uno dei tanti block del campo, nei quali, a causa del sovraffollamento, gli occupanti furono costretti a cercare posto anche sui pagliericci delle cucce dei castelli, anch’esse peraltro già tutte occupate. Nel corso della prima notte i nuovi arrivati appresero subito dai loro compagni i regolamenti del campo e i durissimi sacrifici e le privazioni che avrebbero dovuto sopportare.

All’alba alcuni carcerieri armati di randelli entrarono nel block per dare la sveglia e distribuirono della nera brodaglia ai detenuti, che subito dopo vennero fatti uscire nel cortile. Nel vasto cortile, suddiviso in diverse zone intervallate da siepi di filo spinato per impedire ai detenuti di passare da un block all’altro, tutti i prigionieri vennero fatti allineare in formazioni compatte, tra le quali quella dei sanremesi era vicina al gruppo delle donne detenute nel campo.

Subito dopo iniziarono le operazioni destinate a trasformare definitivamente i prigionieri in veri e propri deportati. Uno dopo l’altro furono rapati, passati sotto la doccia e vestiti con gli abiti del lager senza aver avuto nemmeno la possibilità di asciugarsi; fatti entrare nell’ufficio matricola del campo, ad ogni deportato fu assegnato da parte di alcune addette tedesche un distintivo, il quale era costituito da un triangolino di stoffa rossa e una striscia con il numero di matricola. Nei giorni seguenti avrebbero quindi ricevuto anche la divisa da deportato, che consisteva in una tuta da lavoro, segnata nella parte posteriore da una grande “x” colorata, dei rozzi zoccoli di legno ai piedi e una sorta di cappuccio in testa.

Soltanto dopo la vestizione i prigionieri diventavano dei veri deportati, individui senza volto e senza nome, contraddistinti unicamente dal contrassegno del triangolino e dal numero di matricola da loro stessi cucito alla bell’e meglio sulla tuta. Molto presto i deportati cominciarono a imparare il triste significato del triangolino, il cui colore variava a seconda della «colpa» di ciascuno, cioè rosa per i rastrellati, rosso per i politici, giallo per gli ebrei, bianco per gli ostaggi ecc. In ogni block erano rinchiusi deportati con il triangolino dello stesso colore.

La vita nel campo si svolgeva quotidianamente tra due grandi adunate generali: una alla mattina un’ora circa prima delle luci dell’alba e l’altra, a tarda sera, prima della chiusura dei deportati nei block. Tali adunate risultavano particolarmente penose e faticose per i prigionieri, che erano costretti a rimanere anche parecchie ore all’aperto sotto il freddo intensissimo dell’inverno per essere sottoposti a lunghissimi controlli, alla fine dei quali erano passati in rassegna dal comandante del lager, che, se notava una diminuzione delle presenze dovuta semmai alla fuga di qualche detenuto, protraeva ulteriormente le operazioni di controllo, mentre i fuggiaschi catturati erano rinchiusi nelle durissime celle di segregazione o fatti oggetto di spietate rappresaglie.

Nei cameroni gelidi i deportati passavano la notte sui durissimi giacigli dei castelli in legno, mentre il trattamento disumano, l’umiliante promiscuità, le preoccupazioni per il futuro e l’assenza di notizie dei propri parenti rendevano drammatiche le condizioni fisiche e spirituali degli sventurati, che commentavano la situazione bellica del momento con particolare riferimento all’avanzata delle truppe alleate e agli ultimi bombardamenti, ma anche l’ultimo contingente di italiani inviati in Germania su vagoni piombati o l’esiguità dell’ultimo rancio; nel corso della notte alcuni deportati mangiavano dei pezzi di pane nero, altri divoravano una mela e altri ancora cuocevano su una stufa a segatura una patata o una carota sottratte alla cucina del campo.

La giornata dei rastrellati si svolgeva prevalentemente fuori del campo, dove erano costretti a lavorare con picco e pala, in galleria, nel campo di aviazione, a rimuovere macerie o rimettere in sesto la linea ferroviaria interrotta dall’ultimo bombardamento. Tali lavori, in gran parte inutili e pesantissimi, avvenivano in un clima rigido senza alcuna possibilità di lenire il freddo pungente sotto la continua sorveglianza di guardie armate. Quando un deportato interrompeva anche per pochi istanti il lavoro, riceveva immediatamente una bastonata o un calcio da parte di un soldato che lo riportava alla dura realtà, mentre spesso i rastrellati erano pure scherniti dalle guardie e irrisi dai civili di sentimenti filotedeschi.

Naturalmente anche i servizi esistenti nel lager erano gravemente carenti sotto tutti i punti di vista, specialmente quelli sanitari e di infermeria, che non potevano tra l’altro ospitare nello stesso tempo più di una quindicina di ammalati su migliaia di deportati. Era quindi abituale che il ricovero in infermeria venisse concesso dalle autorità del campo soltanto a coloro che si trovassero in gravissime condizioni di salute o addirittura moribondi. Tutti gli altri deportati, anche se ammalati in modo grave, non erano accolti nell’infermeria per lasciare posto a quelli che fossero praticamente in fin di vita.

Pochi giorni prima del Natale ’44 alcuni prigionieri in condizioni di salute particolarmente critiche (tra i quali molti sanremesi) furono dimessi dal campo, non tanto peraltro per sentimenti di misericordia, ma perché considerati inutili e ormai di fatto dei pesi morti. Nel gennaio ’45 vennero istituite le prime squadre di lavoratori fuori Bolzano e un primo gruppo di rastrellati fu allora inviato a Vipiteno, dove, pur vivendo in baracche ed essendo sempre sottoposti al duro trattamento concentrazionario da parte dei soldati tedeschi, ebbero la sensazione di essere trattati in modo più umano rispetto a quello del lager bolzanino.

Nel mese di febbraio, mentre le truppe tedesche stavano cominciando decisamente ad essere sopraffatte da quelle alleate su tutti i fronti, un primo contingente di rastrellati lasciò definitivamente il campo di Bolzano per essere impiegato come un gruppo di «liberi lavoratori» presso un’impresa simile all’organizzazione Todt operante a Cardano, mentre altri deportati furono dimessi successivamente e inviati ad Ora e in altre località dell’Alto Adige.

I «liberi lavoratori»,  liberi però soltanto di nome ma di fatto nelle stesse condizioni degli altri deportati, erano costretti a svolgere lavori particolarmente pesanti e faticosi di manovale o sterratore nelle gallerie, sottoposti a parecchie ore di duro lavoro a picco e pala, che risultava oltremodo stressante se si considera la situazione di debolezza e denutrizione in cui si trovavano questi uomini già estremamente provati dall’esperienza concentrazionaria. Nonostante ciò, la felicità dei deportati era grandissima per essere usciti dal lager e vivere all’aperto quasi come se fosse stata una promessa dell’imminente liberazione.

Intanto la marcia degli alleati e la guerriglia partigiana stavano ormai per mettere in fuga le armate naziste fino a quando non si giunse alla liberazione di aprile. Alcuni deportati, peraltro, erano nel frattempo riusciti a fuggire dal campo e a ritornare alle loro case a Sanremo, mentre gli altri, pochi alla volta, li avrebbero seguiti quando si sentirono le prime cannonate con un rimpianto stringente però per tutti coloro che erano periti a causa degli stenti e dei maltrattamenti subiti nel lager e per i quali non era purtroppo arrivato il giorno della tanto agognata liberazione e del ritorno alle loro famiglie.

 

 

Dott. Andrea Gandolfo

Redazione