- 21 agosto 2015, 17:00

Liguria-Calabria, quando la costa si fa brutta

Il cemento vista mare nel dossier di Legambiente.

Premetto che non sono un ambientalista col paraocchi, che vede tutto verde. Né sono propenso a fraternizzare con chi è cronicamente affetto dalla sindrome Nimby (acronimo inglese per “not in my backyard”, cioè costruisci dove ti pare, tranne che nel mio cortile). Però quando leggo determinate statistiche, o contemplo certe brutture, a stento riesco a reprimere un moto di sollievo per le difficoltà che sta attraversando l’edilizia in Italia, dopo decenni di cemento selvaggio. Non che tale fenomeno sia scomparso, tutt’altro. Legambiente, nel suo recentissimo dossier “Salviamo le coste italiane”, segnala che la Liguria vive una delle situazioni più gravi. Il 63% delle coste liguri è stato intaccato dalle costruzioni: ben 218 chilometri su 345 non sono più classificabili come paesaggio incontaminato.

La regione ha i litorali tra i più compromessi della Penisola, in cementificata compagnia di Lazio e Abruzzo e battuta di poco dalla Calabria. Laggiù hanno deturpato, o trasformato, per usare un eufemismo, il 65% della linea costiera, quindi 523 chilometri su 798. La Liguria, negli ultimi vent’anni, ha perso circa 4.000 metri di ecosistema litoraneo. Ville, alberghi, seconde case, porti: il variegato calcestruzzo, il gusto più amato dai palazzinari, è cresciuto a dismisura, con otto chilometri l’anno di coste sfregiate dalle ruspe. Posto che l’edilizia sana esiste e va incoraggiata, e che costituisce un motore indispensabile di ripresa industriale, è urgente ripensare dalle fondamenta le nostre architetture. Il “silenzio-assenso” della legge Madia andrebbe bene, come principio di snellimento burocratico, a patto che fosse sempre corroborato da regole chiarissime su cosa è possibile costruire, come e dove. Realizzare qualcosa di nuovo dovrebbe diventare un’eccezione: solo opere di pubblica utilità (un ospedale unico, un campus scolastico, Aurelia-bis) e abitazioni integrate nell’ambiente circostante, in zone non vincolate, con elevati standard di prestazione energetica. Come prescrive l’Europa dei “near-zero energy buildings”, vale a dire edifici a energia quasi zero, capaci di consumare pochissima elettricità e vantare un eccezionale isolamento termico, di pari passo con l’autoproduzione di luce e calore grazie alle fonti rinnovabili.

Tutto il resto dell’edilizia dovrebbe incentrarsi sulle ristrutturazioni. E qui il Governo dovrebbe rendere permanenti le agevolazioni fiscali, premiando in particolar modo chi investe sulla riqualificazione energetica. Inoltre, per quanto il concetto di “bello” sia opinabilissimo, le detrazioni fiscali dovrebbero favorire gli interventi che hanno un valore estetico per la collettività. Esempio: il rifacimento delle facciate, soprattutto se presentano decori o affreschi, il restauro di antichi edifici in pietra nei centri storici e così via. Altri premi (magari in termini di maggiore edificabilità) potrebbero essere riservati a chi s’impegna a ripristinare terreni incolti o abbandonati, smantellare vecchie serre in frantumi, ricostruire terrazzamenti o eseguire altri lavori per prevenire frane e allagamenti. Allora sì che avremmo una buona edilizia, in grado di migliorare, oltre che preservare, il patrimonio esistente, secondo quei dettami di “rigenerazione urbana” in auge in tutto il mondo.

Il dossier di Legambiente.

Luca Re