- 31 agosto 2013, 20:47

La storia dell’antico 'Principato di Seborga' dalle origini ai giorni nostri nel racconto dello storico Gandolfo

Lo studioso matuziano cerca di restituire al vasto pubblico un quadro sereno e obiettivo della ormai millenaria storia di questo piccolo e suggestivo borgo dell’entroterra di Bordighera

La recente 'riscoperta' dell’antico 'Principato di Seborga' a fini prevalentemente turistici, ha permesso a tanti di conoscere per la prima volta le bellezze, a volte nascoste o misconosciute, di questo piccolo e suggestivo borgo dell’entroterra di Bordighera. Al di là tuttavia delle operazioni propagandistiche, che pur hanno contribuito al rilancio del turismo locale, credo però sia anche necessario soffermarsi sulle principali tappe dell’evoluzione storica di Seborga per restituire al vasto pubblico un quadro sereno e obiettivo della ormai millenaria storia del paese. Per tale motivo ho riassunto una storia di Seborga dalle origini ai giorni nostri, che offro quindi all’attenzione dei lettori di Sanremo News:

Le prime notizie sulla presenza di popolazioni nel territorio su cui sorge attualmente il paese di Seborga risalgono al V secolo a.C., quando alcuni nuclei familiari di genti liguri abitanti lungo la fascia costiera ripararono sulle colline dell’entroterra nel tentativo di sfuggire alla pressione dei Celti dal nord e alla pressioni dei corsari dal sud. Sulle colline sorsero allora alcuni piccoli insediamenti, ciascuno dei quali costituito da poche famiglie, che traevano sostentamento dalle scarse risorse fornite dallo sfruttamento agricolo del terreno e dalla pastorizia. È quindi ipotizzabile che pure nella zona dell’attuale Seborga si siano installati alcuni gruppi di famiglie, che vi costituirono un primo nucleo di abitazioni. Tali insediamenti, completamente autonomi, iniziarono ad assumere una struttura ordinata con l’istituzione di regole di vita comune, soltanto con l’avvento della dominazione romana, che incorporò la Liguria costiera nella Gallia Cisalpina dividendola in due zone che andarono entrambe a costituire una federazione con Roma, usufruendo del diritto riconosciuto alle popolazioni italiche. Gli abitanti dei Burga dell’entroterra vennero però considerati alla stregua di barbari e furono quindi sottoposti al controllo militare senza i benefici del diritto italico. In forza di tali disposizioni, anche il territorio di Seborga fu considerato barbaro inducendo i suoi abitanti ad ingrossare le fila della resistenza ai Romani, che si andavano gradualmente organizzando lungo la fascia costiera, ma soprattutto sulle colline, della Liguria occidentale. La resistenza delle popolazioni dell’entroterra si protrasse fino al 14 a.C., quando tutta la Gallia fu completamente sottomessa dall’imperatore Augusto, che estese in quella circostanza la Lex romana e il diritto italico a tutte le genti liguri, comprese quelle dei borghi dell’interno. Gli abitanti dell’entroterra manifestarono però ben presto una profonda insoddisfazione per l’applicazione del diritto italico alle loro zone, in quanto non ne ricevevano alcun beneficio concreto a differenza degli abitanti della fascia costiera, favoriti nelle loro attività commerciali sia per mare che per terra. Tale malcontento si tradusse poi nel rifiuto di consegnare i prodotti e le derrate agricole all’ammasso romano e di fornite reclute all’esercito. Dopo la completa sottomissione della Gallia, Augusto provvide a suddividerla in otto nuove province, mentre il territorio ligure, inclusa la fascia dell’entroterra, entrò a far parte della nuova provincia delle Alpi Cozie, istituita nel 293 dall’imperatore Diocleziano. Ottenuta la cittadinanza romana nel 63 dall’imperatore Nerone, le popolazioni dei Burga liguri dell’entroterra vissero nei primi secoli dell’età imperiale un periodo di pace e relativo benessere, che cominciò tuttavia ad entrare in crisi dopo la suddivisione dell’Impero attuata da Teodosio nel 395 e soprattutto dopo l’inizio delle prime incursioni barbariche, tra cui in particolare quelle dei Vandali e dei Visigoti, che devastarono ripetutamente la Liguria occidentale a partire dalla prima metà del V secolo. Dopo alterne vicende la Liguria passò nel 489 sotto il dominio del re degli Ostrogoti Teodorico, che sottopose la popolazione a gravosi balzelli e costrizioni, causando una rapida decadenza delle condizioni sociali ed economiche degli abitanti, che si fece sentire ancora di più nelle zone dell’interno. Verso la metà del VI secolo, però, agli Ostrogoti subentrarono i Bizantini, che conquistarono il territorio ligure e lo inglobarono nel loro Impero come provincia bizantina delle Alpi Cozie. Nel 569 iniziò la penetrazione dei Longobardi, ai quali le popolazioni del Ponente liguri opposero una strenua resistenza, che fu definitivamente domata soltanto nel 643, quando re Rotari devastò la Liguria occidentale e poi incluse tutta la Liguria e la parte orientale della Provenza nel Ducato longobardo del Ponente, che fu a sua volta aggregato all’Esarcato di Ravenna, che godeva allora di una certa autonomia pur facendo parte integrante del Regno longobardo. 

    Le origini del feudo di Seborga datano dal 954, quando Guido, conte di Ventimiglia, in procinto di partire per una crociata contro i Saraceni, donò all’abate del monastero benedettino di Sant’Onorato in Lerino la chiesa di San Michele in Ventimiglia con ampio territorio annesso e il paese di Seborga. Il documento che porta gli estremi di tale donazione costituisce la prima prova dell’esistenza del Castrum Sepulchri storicamente documentata e rappresenta perciò l’inizio vero e proprio della plurisecolare vicenda del feudo seborghino. Accettato il dono del vasto territorio con ogni diritto feudale, il primo abate-conte o un suo immediato successore organizzò il feudo trasformando la chiesa di San Michele in monastero retto da un priore, cui affidò la direzione e l’amministrazione del feudo di Seborga. Nel 1041 i fratelli Ottone e Corrado conti di Ventimiglia, con la madre Adelaide e la contessa Armilina, donarono, o forse confermarono la donazione, del monastero di San Michele e delle sue pertinenze all’abate di Sant’Onorato Adalberto e ai suoi legittimi successori concedendone l’uso a loro arbitrio. Nel frattempo le proprietà territoriali dei monaci di Lerino andavano sempre più ingrandendosi grazie alle donazioni di nobili e possidenti della zona intemelia, tra i quali i più munifici e generosi rimasero comunque i conti di Ventimiglia. Nel 1064 e nel 1077, infatti, i conti Ottone e Corrado (quest’ultimo congiuntamente alla moglie Donella) donarono all’abate Dalmazzo ulteriori appezzamenti di terreno, confermando nello stesso tempo tutte le precedenti regalie e quindi tacitamente anche quella del Castrum Sepulchri, che risulta esplicitamente citato in due documenti del 1079. Il primo di tali atti riporta la conferma della donazione al monastero di Sant’Onorato da parte del conte Spedaldo, cugino di Ottone I e forse appartenente ad un ramo collaterale dei conti di Ventimiglia, in cui il Castrum viene denominato fundo Sebolcaro, mentre il secondo riguarda la conferma della donazione allo stesso monastero di un territorio detto Cunio o Conio, situato nelle vicinanze del borgo denominato Sepulchrum, ad opera di un certo dominus Fondaldo, forse identificabile con lo stesso Spedaldo, unitamente ai suoi figli e nipoti, a Romaldo e i suoi fratelli, a Mauro con sua moglie e le sue figlie, e ai fratelli Razo e Guglielmo, che specificano di offrire i terreni all’abate Dalmazzo e al cenobio di San Michele a favore delle proprie anime. Nelle diverse carte di donazione i confini del feudo seborghino erano tuttavia indicati in modo tanto superficiale che fin dal 1152 fu necessaria una sentenza per fissare i limiti del feudo verso l’isola dei Gorreti sul Roia appartenente alla chiesa di San Michele. Una successiva controversia fu alimentata dall’avanzata delle forze genovesi nella Liguria occidentale nel corso della seconda metà del XII secolo, quando il comune di Genova pretese che il paese di Seborga fosse parte integrante del suo territorio e che pertanto i suoi abitanti dovessero giurare fedeltà e versare le avarie, ossia le tasse governative, alla Repubblica. L’abate di Lerino appoggiò allora le proprie rivendicazioni sul documento del 954 e, forte di tale attestazione, sostenne con le autorità genovesi una lunga causa, terminata con una sentenza emessa il 13 luglio 1177, in base alla quale fu confermato il lascito del 954 del conte Guido e furono ripetuti i confini del feudo di Seborga delineati in tale documento con maggiore chiarezza: dalla sommità del Monte Nero alla località detta Elesebella, il limite scendeva per il vallone di detto monte al passo della Lona per proseguire in su per il vallone di Batallo fino al territorio di Gionco, appartenente al comune di Perinaldo. Tutto questo vasto territorio venne allora riconosciuto come appartenente all’abbazia di Lerino, mentre i suoi abitanti non erano ritenuti soggetti all’obbedienza né alle avarie nei confronti della genovese città di Ventimiglia.

   In seguito alla conferma imperiale rilasciata da Federico Barbarossa nel 1162 alla Repubblica di Genova, il governo genovese, che aveva esteso i suoi domini fino a Nizza, dichiarò nel 1181 di assumere anche la protezione delle isole di Lerino, che avrebbe comportato anche un’infiltrazione genovese a Seborga, ma tale dichiarazione rimase soltanto sulla carta in quanto Seborga continuò a dipendere amministrativamente e politicamente, in qualità di feudo dei monaci di Lerino, dalla contea di Provenza sotto la giurisdizione della circoscrizione di Antibes, una situazione che si sarebbe protratta fino alla metà del Settecento senza un sostanziale mutamento del suo assetto di fondo. Sin dall’inizio del loro potere sul feudo di Seborga, gli abati di Sant’Onorato avevano inoltre manifestato una profonda insofferenza nei confronti del clero secolare, che fino ad alla avevano esercitato il controllo spirituale sulle genti del feudo sotto l’autorità ecclesiastica del vescovo di Ventimiglia. Ai contrasti di natura prettamente spirituale si mescolarono allora dissidi relativi ai diritti di percepire le decime dai lavoratori del feudo. Il presule intemelio riteneva infatti che la chiesa di San Michele a Ventimiglia e l’Oratorio di San Bernardo a Seborga dipendessero, sia dal punto di vista spirituale sia da quello temporale, dalla sua diocesi, a cui spettavano quindi le prebende e le decime di competenza del clero, mentre l’abate di Sant’Onorato sosteneva che la donazione ricevuta dal conte Guido includeva tutti i diritti concernenti il feudo seborghino, sul quale lo stesso abate avrebbe avuto quindi piena facoltà di esercitarvi sia l’autorità spirituale sia quella temporale e al quale dovevano pertanto essere versati i tributi di spettanza ecclesiale. Con tale solenne affermazione l’abate si volle così anche cautelare da analoghe pretese che avrebbero potuto essere accampate dal vescovo di Grasse, dalla cui diocesi dipendevano le isole di Lerino. Nel 1261, frattanto, il priore della chiesa di San Michele Giacomo Costa, su mandato dell’abate di Sant’Onorato, aveva stilato il testo degli Statuti e dei Regolamenti concernenti il feudo di Seborga, i quali vennero riportati in alcuni Cahiers de parchemin del monastero di Lerino. Un’ulteriore conferma dell’appartenenza del feudo di Seborga al monastero di Sant’Onorato è contenuta in un atto notarile redatto nel 1272 dai notai Guglielmo Gandalino e Alberto Renoverio, nel quale sette testimoni, alla presenza del podestà di Ventimiglia, su incarico del monastero lerinese, dichiararono che il paese di Seborga e il suo territorio dipendevano dalla chiesa di San Michele e che il comune di Genova e quello di Ventimiglia non vi avevano alcuna autorità. A rafforzare tale presa di posizione il priore di San Michele, a nome dei monaci lerinesi, comprò tra il 1287 e il 1288 alcuni beni immobili situati in Castro Sepulchri, e precisamente una casa da Fulcone Vilensone di Sanremo e un’altra casa, al prezzo di quattro lire, da Guglielmo Barbarossa, anch’egli di Sanremo, mentre un altro podere, detto la Braia, situato in una zona attigua al paese e ad un altro terreno già di loro proprietà, fu acquistato da un certo Guglielmo Unia di Seborga per la somma di ventotto lire. A causa dell’incertezza dei confini e dell’esigenza di allargare la zona destinata ai pascoli insufficiente per tutti i pastori, cominciarono allora aspri dissidi, che si sarebbero protratti per secoli, tra gli abitanti di Seborga e quelli dei paesi confinanti di Sanremo, Vallebona e Ventimiglia. Le terre del Conio sarebbero state a poco a poco rioccupate dagli abitanti di Sanremo e Vallebona, mentre la lunga serie di discussioni, liti e sentenze iniziata ai primi del XIII secolo per questioni confinarie e territoriali sarebbe proseguita, superando l’epoca di vendita di Seborga al re di Sardegna (1729), fino all’annessione della Liguria al Regno di Sardegna nel 1815.

    Le rendite del feudo continuavano peraltro ad essere assai scarse tanto che i monaci, per mantenerne il possesso, furono costretti a chiedere in più occasioni prestiti in denaro ad alcuni facoltosi possidenti locali, cosicché nel 1292 ne ottennero uno di ottocento scudi da don Vivaldo Grassino, cappellano della chiesa genovese di Sant’Antonio, a cui venne dato in pegno un’opzione sul feudo seborghino, poi riscattato all’abate Sicard nel 1298, e un altro di quattrocento scudi ottenuto nel 1317 dall’abate Ugo Raimondo dai marchesi Doria di Dolceacqua. A tali prestiti i monaci furono costretti a ricorrere non soltanto per la particolare esiguità dei prodotti della terra a Seborga, ma anche perché gli abitanti del paese rifiutavano sistematicamente di pagare le decime su di esse, tanto che più volte insorsero dissidi e contrasti tra i Benedettini e i Seborghini, poi risolte con una serie di transazioni di breve durata, tra cui quella del 1256, nella quale vennero messe per la prima volta in chiaro le pretese signorili; quella del 1394 in cui i rappresentanti della comunità di Seborga giurarono davanti al priore Giovanni di rendere conto ogni anno dell’intera quantità di grano, orzo, fave e segala raccolta in tutto il territorio seborghino e di versare un decimo di questi prodotti al priore, mentre le due parti si perdonavano reciprocamente i danni e le spese delle liti passate e giuravano, toccando il Vangelo, di rispettare queste convenzioni pena una multa di cinquanta lire alla parte inadempiente. Nel 1439 i monaci ottennero la conferma delle loro pretese, mentre ventitré anni dopo, nel 1462, il priore Guido Busceta e i sindaci di Seborga alla presenza di Andrea Plaisance rinnovarono l’antica transazione raggiunta tra il priore Giorgio e i sindaci nel 1439, relativa alla riscossione delle decime e dei diritti. Nel 1469, in esecuzione di bolle apostoliche, gli uomini di Seborga, radunati nella chiesa di San Martino di Seborga, promisero a Nicola, dei conti di Ventimiglia, nuovo priore di San Michele, di essergli fedeli ed obbedienti per tutta la durata del suo priorato, mentre, sei anni dopo, il priore Nicola specificò tra i redditi che provenivano da Seborga, anche varie decime su parecchie derrate agricole. Una successiva sentenza, emessa nel 1485, autorizzò poi i Seborghini a versare soltanto la tredicesima parte del raccolto, ma trent’anni dopo, nel 1515, il padre cellerario di Sant’Onorato l’avrebbe dichiarata nulla ribadendo la pretesa della nuova parte. La Contea di Ventimiglia, intanto, che era sotto la giurisdizione della Repubblica di Genova, era passata nel 1335 sotto il dominio del re di Napoli e conte di Provenza, ma venne riconquistata da Genova nel 1350, che la riperdette nel 1354 per poi riconquistarla nuovamente nel 1357. Sfibrati da questa lunga serie di conflitti che ne devastavano i territori, i conti di Ventimiglia decisero alla fine di rinunciare al feudo e di cedere tutto il Contado alla Repubblica genovese, cosicché l’ultimo conte, Giovanni Antonio, morto nel 1476 senza lasciare eredi, dispose che alla sua morte tutto il feudo intemelio passasse a Genova. Da allora tutta la Liguria passò sotto il dominio genovese ad eccezione del feudo di Seborga, sempre dipendente dai conti di Provenza. Nel 1481 Renato d’Angiò cedette tutti i suoi possedimenti al re di Francia Luigi XI e così anche il feudo seborghino venne a dipendere direttamente dal Regno di Francia. Nel frattempo il governo genovese, che mal sopportava l’esistenza di una enclave nel suo territorio su cui non poteva accampare diritti di alcun tipo, iniziò a sobillare i propri sudditi le cui proprietà circondavano quelle di Seborga, affinché si infiltrassero nel territorio seborghino consentendo così alla Serenissima di poter in un secondo tempo avanzare rivendicazioni territoriali sul feudo. Proni alle direttive delle autorità della Repubblica, molti sudditi genovesi cominciarono ad effettuare incursioni nel territorio di Seborga che divennero sempre più frequenti tanto che nel 1431 il priore della chiesa di San Michele di Ventimiglia mosse causa ad un certo Carlo Lomellino di Ventimiglia, accusato di aver usurpato alcuni terreni in quel di Seborga e il cui caso fu dibattuto presso i serenissimi Collegi della Repubblica di Genova e fu risolto con la firma di una convenzione nel 1460, in base alla quale si pattuiva tra l’altro che sarebbero stati piantati cippi in pietra o calce per la delimitazione dei rispettivi confini. Le controversie tra Seborga e Vallebona si protrassero invece per tutto il XVII secolo e culminarono nel 1704 con l’assassinio del seborghino Giobatta Gazzano per mano di un vallebonese. Dal 1580 si moltiplicarono inoltre le infiltrazioni nel territorio seborghino anche da parte di Sanremesi, soprattutto nella zona di Conio, tanto da indurre l’abate di Sant’Onorato a inoltrare nel 1583 e nel 1589 varie rimostranze al governatore genovese con sede a Ventimiglia, affinché pure gli invasori sanremesi fossero costretti a rientrare nei loro possedimenti. La causa non venne però accolta dalle autorità genovesi, che riconobbero il diritto dei loro sudditi di invadere le terre seborghine come ritorsione al fatto che i Seborghini stessi pagavano le decime relative alla zona di Conio ai monaci e non al fisco della Repubblica, che se ne riteneva legittima proprietaria.

   Mentre a Genova cessava nel 1522 la dominazione francese, si riacutizzavano le tensioni e le controversie tra i monaci di Sant’Onorato e il vescovo di Ventimiglia per l’annosa questione delle decime e del predominio spirituale su Seborga. Di tali dissidi si hanno riscontri documentari in vari atti stipulati tra il 1578 e il 1622 fino a quando non si raggiunse un precario accordo tra il vescovo Gandolfo e l’abate Teodoro nel 1624, ma le dispute ripresero l’anno dopo ed ebbero termine solo con la vendita del feudo al re di Sardegna, dopoché non aveva ottenuto alcun risultato un tentativo pacificatore operato addirittura da papa Benedetto XIII nel 1725. Frattanto perduravano le condizioni assai misere della popolazione seborghina tanto che le decime pagate ai monaci diventavano sempre più modeste costringendo l’abate di Sant’Onorato a contrarre nel 1584 un ingente debito, pari a mille scudi, con il governo della Serenissima, che accettò di buon grado ad elargire il denaro richiesto in quanto sperava che, nel caso il monastero non fosse stato in grado di restituire i soldi, esso sarebbe potuto entrare in possesso del territorio seborghino sul quale già deteneva un’ipoteca. Ma giunsero in aiuto dei monaci donazioni da parte di molti nobili e proprietari terrieri permettendo solo di acquistare nel 1607 da Bernardo Andracco un edificio di Seborga confinante col terreno della Braia, già in loro possesso, che venne ristrutturato in modo tale da adattarlo alle loro esigenze e che fu ribattezzato dalla popolazione locale il «Palazzo». Per soddisfare le sempre più pressanti richieste di maggiori fonti di reddito, ai monaci venne quindi l’idea di aprire una zecca per la battitura di monete da smerciare in Europa e nel vicino Oriente, forti della qualifica principesca del loro dominio. Nel 1666, nei locali del loro «Palazzo», venne così aperta una zecca che iniziò a coniare monete di vario valore sul tipo dei «Luigi» di Francia ad opera di fiduciari rappresentati in un primo tempo da alcuni mercanti francesi e poi dal commissario di Sanremo Paolo Giustiniani. Il primo atto ufficiale per tale incarico risultò essere stato stipulato dall’abate di Sant’Onorato Cesare Barcillon con Bernardo Bareste di Mougins nel 1666, cui seguirono quelli con Silvano Condaz di Genova e con Jean d’Abric di Nimes. Il periodo di attività della Zecca si protrasse per circa un ventennio fino al 1687, durante il quale le monete seborghine non ebbero peraltro buona accoglienza in Europa, dove ne fu proibito l’uso in Savoia nel 1667 e in Piemonte nel 1669, mentre in Francia non ebbero praticamente mai corso legale. Il motivo di tali provvedimenti va individuato nel fatto che gli ultimi fiduciari avevano iniziato a battere monete false inducendo il governo sabaudo ad inoltrare una formale rimostranza al re di Francia Luigi XIV affinché ponesse fine a tale inaccettabile irregolarità intervenendo sui suoi sudditi del monastero di Sant’Onorato. Il sovrano francese intervenne allora immediatamente e, nel 1687, impartì l’ordine di chiudere la zecca ai monaci lerinesi, che ubbidirono al loro re sia perché pare fosse stato loro promesso un indennizzo sia perché proprio a Luigi XIV erano dovuti ricorrere nel 1678 per arginare gli sconfinamenti di Sanremesi, Ventimigliesi e Vallebonesi nel loro territorio, che si erano diradati grazie all’intervento del re di Francia presso il governo della Repubblica di Genova. Cessata questa fonte di guadagno, i monaci iniziarono a pensare seriamente all’opportunità di disfarsi del feudo di Seborga e della chiesa di San Michele a Ventimiglia in quanto tali proprietà rappresentavano una passività oltremodo gravosa per l’Ordine, i cui delegati cominciarono a prendere contatti con gli emissari del duca di Savoia, che fin dall’inizio del secolo aveva manifestato il suo vivo interesse all’acquisizione del Principato in quanto il suo possesso gli avrebbe consentito di ampliare ulteriormente lo sbocco marittimo di Nizza, di controllore le battute vie del contrabbando del sale operato dai Genovesi verso il Piemonte e di venire in possesso di importante punto strategico per eventuali operazioni militari. Possibili trattative con altri acquirenti, tra i quali vi poteva essere anche il governo genovese, vennero tralasciate in quanto l’ipotesi di vendita ai Savoia era gradita sia al re di Francia sia a papa Innocenzo XI, che infatti non nascosero questa loro preferenza inviando messaggi in tal senso al monastero di Sant’Onorato. 

   Dopo alcuni colloqui informali, interrotti peraltro nel 1667 in seguito ad un messaggio dell’imperatore Leopoldo I che invitò l’abate di Sant’Onorato a rinunciare senza mezzi termini all’alienazione di Seborga, si pervenne nel 1697, grazie anche a una serie di trattative riservate, alla definizione di un contratto di cessione dei beni e del territorio di Seborga al duca di Savoia, rappresentato dal marchese di San Tommaso, da parte dell’abate del monastero di Sant’Onorato Giuseppe de Meyronnet per la somma di 25.000 scudi. Da allora però il governo genovese, che evidentemente non vedeva di buon occhio la vendita ad altri di un territorio incuneato nei suoi possedimenti, intensificò la propria azione diplomatica sia presso la corte francese sia presso la Curia vescovile di Ventimiglia allo scopo di dilazionare il più possibile la cessione del Principato di Seborga ai Savoia. L’azione genovese venne anche favorita dalla una serie di complicazioni di natura internazionale e che portarono nel 1702 ad una nuova interruzione delle trattative tra i monaci e i Savoia. Approfittando di tale situazione, l’abate cominciò poi a far circolare la voce secondo la quale l’abbazia era disposta a vendere il suo feudo seborghino al miglior offerente, inducendo così vari nobili, che ambivano a fregiarsi del titolo di principe, ad avanzare offerte in denaro tra le quali le più cospicue furono quelle del conte Vespucci di Modena (18.000 scudi), Filippo Ercolani di Bologna (12.300 scudi), Ernesto Lercari di Taggia (25.000 scudi) e la marchesa di Montespan, una delle favorite del re di Francia Luigi XIV, la quale offrì la somma di 20.000 scudi. Altre sostanziose offerte pervennero ai monaci dal vescovo di Ventimiglia, dal marchese Doria, dai conti Spinola di Genova e dai Grimaldi di Monaco, ma tutte queste offerte vennero respinte dai Benedettini di Sant’Onorato che erano fermamente decisi a vendere il loro feudo ai Savoia, dai quali si voleva però ottenere la somma in denaro più alta possibile. Nel 1723 il re di Sardegna Vittorio Amedeo II si disse quindi disposto a concludere l’acquisto del Principato di Seborga in base ai termini pattuiti nell’accordo del 1697 e a tal fine nominò nel 1727 suo rappresentante e delegato alle trattative con pieni poteri l’avvocato Francesco Lea di Nizza. Di fronte all’ipotesi di vendita di Seborga ai Savoia, che si faceva sempre più concreta e minacciosa, le autorità della Repubblica di Genova avviarono un’intensa attività diplomatica presso la Santa Sede, la Corte imperiale austriaca, quella francese e persino il podestà di Seborga Giuseppe Antonio Biancheri, che non nascondeva le sue simpatie nei confronti della Serenissima. Tale massiccia offensiva diplomatica portata avanti dalle autorità genovesi non sortì però l’effetto sperato tanto che a nulla valse un ulteriore aumento dell’offerta in denaro avanzato dalla Repubblica, cui peraltro risposero i Savoia con una controfferta di pari valore. Dopo lunghe trattative e fittissimi carteggi pubblici e privati tra le parti interessate, nel gennaio del 1729, ottenuta la necessaria autorizzazione papale in quanto il Principato di Seborga faceva parte dei beni della Chiesa, si pervenne finalmente alla stipulazione dell’atto di vendita al re di Sardegna del feudo di Seborga e del Priorato di San Michele a Ventimiglia per la somma complessiva di 190.000 lire sabaude pari a circa 35.000 scudi, di cui 175.000 destinate al monastero di Sant’Onorato e 15.000 a quello di Montemaggiore ad Arles. L’atto di vendita del feudo fu stipulato a Parigi il 20 gennaio del ’29 dall’avvocato Lea, plenipotenziario in rappresentanza del re di Sardegna, e dai padri Benoit de Benoit, economo, e Lamberto Giordani, decano, procuratori, in rappresentanza dell’abate di Sant’Onorato, alla presenza del conte Maffei, ambasciatore del Regno di Sardegna nella capitale francese, di Pierre Chauvelin, ministro del re di Francia, dell’arcivescovo di Ebrun, delegato pontificio, e del cardinale di Parigi Fleury. Nel marzo successivo avvenne la formale presa di possesso del Principato da parte del re di Sardegna tramite il suo plenipotenziario avvocato Lea, a cui seguirono grandi manifestazioni di giubilo da parte dei Seborghini, i quali speravano vivamente che, sotto il nuovo dominio, sarebbe cessata o fortemente diminuita la gravosa pressione fiscale imposta loro per secoli dai monaci benedettini di Lerino. 

   Nel corso della successiva guerra di successione austriaca, il territorio seborghino subì penose vicissitudini con l’occupazione del paese da parte dei Franco-spagnoli nel 1741, il ritorno al Regno di Sardegna nel 1746, e una successiva rioccupazione francese l’anno dopo. In base ad un successivo accordo, stipulato a Torino nel 1760, vennero quindi restituiti ai Savoia i possedimenti che avevano nel 1740, tra i quali figurava anche il Principato di Seborga. Per risolvere l’annosa questione dei confini di Seborga con la Repubblica di Genova, il sovrano sabaudo avviò delle trattative nel 1759 con il governo della Serenissima per la definitiva soluzione delle vertenze confinarie e a tale scopo venne formata da una commissione paritetica di esperti, costituita dall’ingegnere Francesco Bertora conte di Exille per il re di Sardegna e dal colonnello Matteo Vinzoni per Genova, i quali, superando gravi dissidi e contestazioni, redassero di comune accordo una mappa, poi sottoposta ai governi sabaudo e genovese, e infine accettata nel 1761 da entrambe le parti. Intanto cominciava a soffiare anche sul Ponente ligure il vento rivoluzionario francese, che si concretizzò a partire dall’aprile del 1794 con l’invasione del territorio della Repubblica di Genova da parte delle armate francesi guidate dal generale Massena, che occuparono anche il paese di Seborga, che nel giugno del 1797, in seguito all’istituzione della giacobina e filofrancese Repubblica Ligure, entrò a far parte del territorio francese e fu compreso nel quarto distretto dipendente dal Dipartimento delle Alpi Marittime. Nel 1805 Seborga e il resto della Liguria passarono quindi sotto il diretto dominio dell’Impero napoleonico, che si sarebbe protratto fino al 1814, quando, caduto Napoleone, il Congresso di Vienna decise l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, che entrò ufficialmente in possesso del territorio ligure nel gennaio del 1815. Seborga, che dipendeva amministrativamente dalla Divisione di Nizza, entrò a far parte nel 1860, dopo la cessione del Nizzardo alla Francia, della provincia di Porto Maurizio, che nel marzo dell’anno successivo sarebbe diventata una delle province del neocostituito Regno d’Italia. Il successivo terremoto del 23 febbraio 1887 causò soltanto lievi danni ad alcuni edifici comunali e religiosi del paese senza tuttavia provocare vittime o feriti, anche se dopo il sisma il governo nazionale concesse al Comune di Seborga le somme di 1955 e 14.175 lire per la riparazione degli stabili municipali ed ecclesiastici leggermente danneggiati dal terremoto. Dieci anni dopo il borgo fu onorato dalla visita del principe sabaudo Ferdinando Umberto di Savoia-Genova, che sostò brevemente a Seborga durante un suo viaggio di trasferimento nel 1897. Dopo gli anni della prima guerra mondiale, in cui caddero diversi militari di origine seborghina, la zona di Seborga fu interessata da un’intensa attività partigiana. Il 9 settembre 1944 il paese subì un massiccio rastrellamento da parte delle forze tedesche, che sottoposero il centro storico ad un intenso fuoco delle loro artiglierie, danneggiando gravemente numerosi edifici, tra i quali la sede delle scuole, il cui crollo causò la morte di cinque persone. Cessato il fuoco delle artiglierie, i Tedeschi irruppero nel paese seminandovi il terrore e uccidendo a raffiche di mitra un vecchio contadino che aveva cercato scampo fuggendo tra i campi. I nazisti catturarono poi cinque giovani partigiani tra cui due ragazze, che vennero trascinati sul piazzale situato all’ingresso del paese, dove furono torturati, massacrati a bastonate e poi fucilati, mentre del garibaldino Emilio Valle, di origini trentine, scomparso durante il rastrellamento, si sarebbero perse le tracce. Nei decenni del secondo dopoguerra il paese ha vissuto un notevole rilancio in campo economico grazie alla consistente produzione floricola, con vaste coltivazioni di rose e soprattutto di mimose, di cui una pregiata qualità si chiama appunto Seborghina, che alimentano una forte esportazione, mentre sono largamente coltivati anche ulivi, viti ed ortaggi. Negli anni più recenti si è registrato inoltre un notevole sviluppo del comparto turistico, che è stato ulteriormente incrementato dalla recente iniziativa, da parte di alcuni abitanti del borgo, di ripristinare l’antico “Principato”, di cui è stato anche eletto un “Principe” nella persona di Giorgio Carbone, che ha provveduto alla nomina di “ministri” e “consoli” del minuscolo “Stato”, le cui folcloristiche autorità hanno anche coniato una moneta (il “luigino”) accettata in paese, hanno emesso dei francobolli e una speciale targa automobilistica, che è stata poi ritirata su disposizione dell’autorità giudiziaria. Tutto ciò ha comunque favorito la notorietà del paese e il suo ulteriore sviluppo turistico nell’ottica della valorizzazione del suo patrimonio storico-artistico, di cui la “rinascita” dell’antico “Principato” rappresenta una tappa fondamentale nel lungo cammino della riscoperta delle antiche tradizioni, su cui gli amministratori locali contano per l’ulteriore rilancio turistico del paese, particolarmente fiero e orgoglioso della sua storia millennaria.

Dott. Andrea Gandolfo - Sanremo".

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