- 08 ottobre 2017, 06:00

Rimedi contro i licenziamenti illegittimi: la tutela reintegratoria piena: ecco le tutele previste

Nel focus di oggi rientreranno casi di licenziamento illegittimo tra loro differenti, ma accomunati sotto il profilo delle sanzioni poste a carico di chi li compie.

Rimedi contro i licenziamenti illegittimi: la tutela reintegratoria piena: ecco le tutele previste

L’approfondimento di oggi avvia una serie di analisi focalizzate sui tipi di tutele predisposte dall’ordinamento nelle ipotesi di licenziamento realizzato al di fuori delle regole previste dalla legge.

Nel focus di oggi rientreranno casi di licenziamento illegittimo tra loro differenti, ma accomunati sotto il profilo delle sanzioni poste a carico di chi li compie.

Possiamo quindi cominciare citando i licenziamenti nulli e quelli – in generale ‒ causati da motivi illeciti determinanti. Fermi gli altri casi espressamente previsti dalla legge, rientrano nei casi di nullità quei licenziamenti intimati in corrispondenza del matrimonio della lavoratrice; quelli impartiti durante il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità ed i casi avvenuti in seguito al godimento di congedi parentali, per la malattia del bambino e di paternità (ex art. 54, co. 1, 6, 7, 9 D.lgs. n. 151/2001).

La successiva categoria da prendere in considerazione è quella dei licenziamenti discriminatori. Questa ulteriore casistica di licenziamenti illegittimi si presenta nei casi in cui un lavoratore dimostri in giudizio di essere stato licenziato a causa delle proprie opinioni politiche, sindacali, religiose, piuttosto che in relazione ai propri orientamenti sessuali, convinzioni personali, provenienze etiche linguistiche o condizioni di genere (cfr. art. 4 l. n. 604/1966; art. 15, l. n. 300/1970; art. 3 l. n. 108/1990).

Infine, come terza categoria da nominare oggi, troviamo quella dei licenziamenti inefficaci. In questo campo ci si riferisce essenzialmente a quegli atti di licenziamento carenti dell’elemento essenziale della forma scritta, tanto da essere considerati dalla legge alla stregua un licenziamento nullo.

Come si diceva in apertura, questi tre citati casi di licenziamento, anche se piuttosto differenti tra loro, vengono ricondotti dall’ordinamento ad una comune disciplina di tutela nei confronti del lavoratore che ne subisce le conseguenze.

Quindi, alla ricorrenza di una tra ipotesi menzionate, il lavoratore, come primo passo, deve procedere all’impugnazione del licenziamento (entro 60 giorni) per poter attivare la procedura e consentire di avviare un procedimento in tribunale. Successivamente, al termine del processo, nel caso in cui il giudice accerti la violazione delle norme di legge da parte del datore di lavoro, emana una sentenza che dichiara la nullità del licenziamento. Dichiarare nullo un licenziamento significa letteralmente considerare come se questo non fosse mai avvenuto. Di conseguenza, in questi casi, la sentenza emanata contiene un ordine di reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro.  Ne deriva che il lavoratore dovrà tassativamente essere reinserito nella posizione aziendale che aveva ricoperto fino al momento del proprio licenziamento, anche a distanza di anni! Inoltre, intendendo il rapporto lavorativo come mai cessato (perché è stata accertata con sentenza la nullità de licenziamento) viene posto a carico del datore di lavoro il pagamento di tutti i contributi previdenziali per il periodo in cui il lavoratore è stato ingiustamente estromesso dal posto di lavoro.  

A beneficio del lavoratore la legge prevede invece la corresponsione di una indennità di risarcimento del danno, rapportata alla retribuzione dal lui percepita (retribuzione globale di fatto nell’art. 18 l. n. 300/1970 e retribuzione utile ai fini del calcolo del tfr nel D.lgs. n 23 del 2015) a copertura del periodo intercorso tra il licenziamento ed il giorno della pronuncia del tribunale. La somma concreta viene determinata dal giudice ed, in ogni caso non può essere inferiore a 5 mensilità (non si indica un massimo). Tuttavia si prevede che da tale risarcimento sia necessario sottrarre quanto il lavoratore abbia percepito nel corso di eventuali esperienze lavorative intercorse nel periodo in cui non ha lavorato per l’impresa che lo ha licenziato (il c.d. Aliunde perceptum).

Il regime appena esposto rappresenta la massima forma di tutela che un lavoratore può ricevere (la dottrina la definisce “Tutela reintegratoria/reale piena”) e, correttamente, trova applicazione solo nei casi più gravi di licenziamento illegittimo. Inoltre, questo tipo di previsioni interessa sia i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (post 7/05/2015), sia quelli soggetti al regime tradizionale (pre 7/05/2015), indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa e dalla natura imprenditoriale o non del datore di lavoro.

Infine, occorre precisare che nei casi appena esposti si consente al lavoratore di poter decidere di non rientrare sul luogo di lavoro, non avvalendosi della reintegrazione (entro 30 giorni dal deposito della sentenza o dall’eventuale invito del datore di lavoro a riprendere servizio). La logica appare quella di non costringere il lavoratore a rientrare in un posto di lavoro dove ha subito pressioni o dove, in generale, potrebbe patire una certa tensione dopo aver vinto una causa di lavoro di così ampia portata. A tale scopo si prevede che il prestatore di lavoro possa “scambiare” la reintegrazione con una ulteriore indennità non soggetta a contribuzione (sempre commisurata alla retribuzione) corrispondente a 15 mensilità (c.d. clausola opting out).

 

Edoardo Crespi

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