- 02 ottobre 2016, 07:00

La vera storia di Oscar Rafone: Avevo bisogno di aria pulita (cap.32)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line

La vera storia di Oscar Rafone: Avevo bisogno di aria pulita (cap.32)

Rientrai in casa. Avevo le scarpe e i pantaloni pieni di fango. Andai in camera di mio padre. Sapevo che teneva una pistola nel comodino. Mi avvicinai al letto e mi ci sedetti. Stavo sporcando di fango dappertutto, ma non me ne fregava niente. Avevo ancora gli occhi che mi bruciavano un po' per le lacrime, ma mi sentivo calmo e sicuro. Aprii il cassetto. Dentro c'erano bollette, fogli con l'intestazione del tribunale, alcune banconote. Infilai la mano sotto quella roba e trovai l'arma.

La conoscevo bene. Mio padre me l'aveva mostrata diverse volte e me l'aveva anche fatta usare pur minacciandomi di morte se l'avessi presa a sua insaputa.

La impugnai. Era carica, la teneva sempre pronta. Ritornai in cucina. Lui era ancora lì, solo che aveva girato la testa dall'altra parte e non vedevo più quel suo strano sorriso e il filo di bava. Mi avvicinai. Russava forte. Ebbe un sussulto, forse stava sognando. Gli augurai che fosse un incubo. Sollevai la pistola. Avevo la sua testa a pochi centimetri dalla canna. Notai che sulla nuca i capelli cominciavano a diradarsi. Appoggiai la bocca della pistola proprio lì. Era lo stesso punto dove aveva colpito Wrestler con un grosso martello o qualcosa di simile e lo aveva ammazzato. Non so dire quanto tempo rimasi in quella posizione, con la canna di una pistola carica appoggiata alla testa di mio padre. Furono i secondi più lunghi della mia vita. Avevo il dito pronto sul grilletto. Mi sarebbe bastato premerlo. Non sapevo di quanto. Da bambino, quando mio padre mi aveva fatto sparare la prima volta, non ci ero riuscito da solo. Neanche tenendo la pistola con due mani e premendo con entrambi gli indici accavallati uno sull'altro. C'era voluto l'intervento di mio padre per far partire il colpo. Aveva schiacciato con decisione il suo indice sui miei. Così ero stato io a sparare, ma con la sua forza. Le dita mi fecero male per diversi giorni, soprattutto l'indice della mano destra, quello che era stato premuto direttamente sul metallo. Altre volte, successivamente, era bastato sfiorare appena il grilletto per farlo scattare. Crescendo avevo capito che non era solo una questione di forza, dipendeva molto da quanto era oliata l'arma. Adesso che tenevo l'indice pronto sul grilletto, non sapendo quanto fosse sensibile lo scatto, stetti attento a essere il più delicato possibile. L'ultima cosa che desideravo era che il colpo partisse senza che io lo volessi veramente. Mi resi conto che da quel grilletto dipendevano due vite, non solo quella di mio padre, che sarebbe finita all'improvviso e buonanotte, ma anche la mia che, per le conseguenze che avrei subito, sarebbe cambiata sicuramente in peggio, molto peggio, in una maniera che non osavo nemmeno immaginare. Spostai più volte l'indice avanti e indietro per trovare la posizione più comoda per il mio polpastrello e fu in quel momento che mi accorsi che il dito mi faceva male. In quello stesso istante fui sicuro che quella scena l'avevo già vista, come se tutto quello fosse già successo. Qualche giorno prima mi ero svegliato proprio con quello stesso dolore e non ero riuscito a capire perché. Solo adesso provando la stessa identica sensazione di dolore mi resi conto che quella scena l'avevo già vissuta in un sogno. Rividi chiaramente tutto. Avevo sparato a mio padre mentre dormiva. Solo che non eravamo in cucina a casa nostra, ma in un cimitero. Era notte, lui dormiva su una lastra di marmo. Una tomba, sì, era proprio una tomba, c'era anche una croce con una fotografia, ma per quanto mi sforzassi di riconoscere la persona ritratta, non ne fui capace. L'immagine appariva troppo sbiadita e col buio non vedevo bene. Ero arrabbiato con lui per qualcosa che mi aveva fatto, non ricordavo cosa, ero confuso. All'improvviso mi ritrovai una pistola fra le mani. Cercavo di sparargli ma l'arma era inceppata. Premevo il grilletto con tutta la mia forza ma era impossibile farlo scattare. Anzi, più premevo, più il dito mi faceva male e a un certo punto il dolore divenne talmente forte che mi svegliai.

L'indice mi rimase indolenzito per tutta la mattina e non seppi darmene una spiegazione, perché non ricordavo più il sogno. Solo adesso mi era tornato tutto in mente. Mi sentii mancare. Improvvisamente avevo la gola secca e mi sembrava che mi mancasse l'aria. Avevo bisogno di uscire da quella stanza, da quella casa, da quella situazione. Aria pulita, avevo bisogno di respirare. Appoggiai la pistola sul tavolo e me ne andai.

 

La vera storia di Oscar Rafone: Con la bocca digrignata volta al plenilunio (cap.31)

Enzo Iorio

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