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| 19 giugno 2016, 06:00

La vera storia di Oscar Rafone: Chi ti ha fatto questo? (cap.17)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line'

La vera storia di Oscar Rafone: Chi ti ha fatto questo? (cap.17)

 

Era sera. Mi avevano svegliato alcuni rumori provenienti dalle stanze più interne della casa. Mi sentivo molto meglio. Mi toccai la fronte per vedere se la temperatura era ancora alta. Ero fresco, la febbre doveva essere completamente passata. Provai a tastarmi lo zigomo aspettandomi di sentire dolore e invece niente. Solo premendo più forte per raggiungere l'osso faceva ancora male. Scostai il telo blu che mi copriva le gambe e notai che sulla coscia non avevo più l'assorbente tenuto fermo da due laccetti ricavati da un sacchetto di plastica ma un cerotto vero, grande abbastanza da coprire tutta la ferita.

Mi tirai su e fui contento di poterlo fare abbastanza facilmente, senza stringere i denti e senza dovermi appoggiare alla parete. Nella casa era quasi buio, ma dalla finestra entrava la luce della luna. Faceva quasi freddo. Il caldo dei giorni scorsi era stato come spinto via dal temporale e di sera la temperatura scendeva di più. Seguendo i rumori raggiunsi la stanza in fondo, quella che dava sul retro. Era la cucina. O meglio lo era stata. Non erano rimasti che il camino e l'acquaio. Il resto, tutto quello che uno potrebbe immaginarsi di trovare in una cucina: credenza, tavolo e sedie, ecc.,  era stato portato via nel corso degli anni. Per un attimo mi tornò in mente come mi appariva quando ero bambino, abbandonata ma ancora abitabile, con l'acqua corrente e i mobili al loro posto. Adesso c'erano solo uno sgangherato tavolino da pic—nic che qualche barbone doveva aver recuperato tra i rifiuti e un materasso, probabilmente della stessa provenienza, arrotolato per terra in un angolo accanto al camino.

La zingara era lì, accovacciata davanti al camino e soffiava su un fuocherello che stava prendendo vita proprio in quel momento.

Mi avvicinai. Lei, pur sentendomi, continuò a fissare le fiamme, senza girarsi.

— Mi chiamo Zayn Aaminah. Non chiamarmi zingara. Se vuoi puoi chiamarmi Zamina che è più facile, ma non zingara.

Aveva la voce triste e sembrava che parlasse col fuoco invece che con me. Volevo accovacciarmi accanto a lei ma quando cercai di piegarmi sulle gambe la ferita sulla coscia mi fece capire chiaramente che non era assolutamente d'accordo. Allora rimasi in piedi di fianco a lei curvandomi verso il fuoco. Mi reggevo con le mani sulle ginocchia e mi sentivo un po' buffo in quella posizione.

— Io mi chiamo Oscar, — dissi.

— Quanti anni hai? — mi chiese.

— Tredici quasi quattordici. E tu?

— Io un po' di più, potrei essere tua sorella maggiore. Hai sorelle?

— No.

— Fratelli?

— No.

— La tua famiglia com'è?

In che senso, volevo chiedere, ma risposi: — Siamo solo io e mio padre.

— E madre?

— Mia madre è morta.

— Mi dispiace.

— Non fa niente. È morta tanto tempo fa, quando io avevo sei anni.

— Povero... — disse.

— E la tua famiglia?

Non rispose. Si chinò in avanti per soffiare ancora una volta alla base delle fiamme, poi attizzò un legnetto e me lo avvicinò al viso.

— Come sta la tua faccia? Fa ancora male?

— Poco, quasi niente.

Mi toccò lo zigomo delicatamente. — Sta passando, — disse. — Domani non avrai più niente. Chi ti ha fatto questo?

— Mio padre, — risposi con un'alzata di spalle.

Il riflesso delle fiamme guizzava nei suoi occhi e li faceva sembrare ancora più belli, ma stavolta non mi sentivo in imbarazzo a fissarli. Fu allora che mi accorsi che aveva uno zigomo gonfio anche lei e un livido che le attraversava le labbra. Le spostai la mano che reggeva il legnetto acceso per avvicinarla al suo viso. Lei tirò indietro una ciocca di capelli che stava per cascarle sugli occhi. Sollevai piano la mano e le sfiorai la guancia, non osavo toccarla, temevo di farle male, ma fu lei ad avvicinarsi alle mie dita e ad appoggiare delicatamente la sua guancia nel palmo della mia mano. Scottava.

— Che bel fresco, hai la mano fredda.

Era vero, mi sentivo le mani gelide e una strana eccitazione che mi saliva dal petto verso la gola. Ebbi un brivido. La fiammella sul legnetto si spense e Zamina lo gettò nel fuoco.

— Hai freddo? — disse. — Ti ho portato dei vestiti.

Mi porse un sacchetto di plastica in cui trovai la roba che avevo addosso la sera prima delle botte: pantaloni, camicia e scarpe. Il cellulare, che tenevo sempre in tasca, scivolò e cadde a terra malamente. Lo raccolsi e controllai se funzionava ancora. C'erano diversi messaggi, quasi tutte catene e cavolate varie che ci passavamo tra compagni di scuola. Uno soprattutto mi colpì perché non riuscivo a capire cosa volesse dire. "15k tt x te nn sn troppi? X' nn facciamo a meta? ;-) Zak."

Tolsi la batteria dal cell e mi vestii.

Zamina stava disponendo dei piatti di plastica sul tavolino da pic-nic.

 

Enzo Iorio

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