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| 01 maggio 2016, 10:59

La vera storia di Oscar Rafone: La casa abbandonata (cap.10)

Pubblichiamo ogni domenica il libro di Enzo Iorio, suddiviso per capitoli, per offrire a tutti un momento culturale nella 'giornata on line'

La vera storia di Oscar Rafone: La casa abbandonata (cap.10)

Ero bagnato fradicio. Per essere un temporale quasi estivo si stava impegnando al massimo. Tuoni fulmini e saette, non so bene cosa sono le saette ma l'ho letto spesso nei fumetti e credo proprio che quella notte non mancasse niente. Non sapevo dove andare. Mi riparai sotto un albero ma mi ricordai che i fulmini sono attratti dalle cose che spuntano dal terreno e che vanno verso l'alto. Avevo paura di rimanere ustionato o di morire fulminato. Cercai di ricordarmi quanta gente muore in questo modo, l'avevo sentito da qualche parte, ma non riuscivo a concentrarmi.

Comunque dovevo lasciare quel riparo anche per un altro motivo. La piazza del paese era buia e deserta ma rimanere là in mezzo in mutande non mi faceva per niente piacere. Avevo tutto il lato sinistro della faccia che mi faceva male per il pugno che mi aveva dato papà. Mi toccai la guancia. Scottava, e lo zigomo si era gonfiato. In più mi ronzava la testa come se ci fosse entrata un'ape, forse per il contraccolpo che avevo preso o per le testate che avevo ricevuto. Un brivido mi salì lungo la schiena e mi venne la pelle d'oca. Seguirono altri brividi. Cominciai a tremare forte. Avevo freddo come non ne avevo mai avuto neanche d'inverno con la neve. Mi misi a correre. Non ero stato io a deciderlo, semplicemente le gambe avevano iniziato a muoversi e mi stavano portando da qualche parte. Si mise a piovere ancora più forte. Correvo in mezzo alla strada, e non vedevo quasi niente. Scivolai e rotolai nel fiume di acqua sporca che si era formato al lato della strada. Mi rialzai, caddi di nuovo. Mi ferii a una gamba, forse con un pezzo di vetro. Sanguinavo. Avevo male dappertutto e non riuscivo a rialzarmi.

Cominciai a pensare che la mia convinzione di non morire mai stava per sciogliersi come un cucchiaino di zucchero nel latte caldo. Fu allora che mi accorsi di essere arrivato in fondo al paese, nel punto più alto, dove finisce la strada e comincia lo sterrato. Mi ricordai della casa abbandonata dove andavo a giocare a nascondino con i miei amici. A causa del buio e della forte pioggia non la vedevo, ma dovevo esserci molto vicino. Aspettai il lampo successivo. Che strano, ce ne erano stati in continuazione fino a un attimo prima e adesso sembravano esauriti. Per un tempo che mi sembrò lunghissimo rimasi disteso per terra, al buio sotto la pioggia incessante che mi martellava. Mi sentivo molto debole e cercavo di conservare quel poco di forza che mi restava per raggiungere la casa abbandonata... quando l'avessi vista. Esplose un altro tuono, fortissimo ma senza luce. Poi, dopo alcuni interminabili secondi, un fulmine immenso rischiarò il cielo e il mondo. Eccola, la vidi. Più spettrale che mai, ma in quel momento mi sembrò la casa più bella dell'universo. Era a poche decine di metri. Potevo farcela. Dovevo farcela. Mi trascinai fino al cancello. Da bambino lo scavalcavo perché era sempre chiuso da un grosso lucchetto arrugginito. Adesso il lucchetto non c'era più. Provai ad aprirlo ma mi accorsi che era impossibile per via di un fil di ferro che lo teneva bloccato. Dovetti scavalcarlo.  I fulmini avevano ricominciato a susseguirsi senza sosta e temetti di rimanere attaccato alle sbarre di ferro. Fu questo forse che mi spinse a muovermi in fretta, e a sopportare il dolore lancinante che sentivo alla gamba e alla testa. La discesa dall'altra parte fu facile, perché caddi. Trovai la forza di rialzarmi e mi trascinai fino alla porta d'ingresso. Era solo accostata. La spalancai con un calcio. Entrai. Buio assoluto. Mi buttai per terra in un angolo. Esausto.

 

Enzo Iorio

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