ELEZIONI COMUNE DI SANREMO
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In Breve

| 10 settembre 2015, 07:21

Seconda puntata della storia di Sanremo nell'Ottocento del nostro lettore Andrea Gandolfo

Il racconto della storia cittadina dall’inizio dell’amministrazione Nota, alla visita del re di Sardegna Carlo Alberto a Sanremo nell’aprile del 1836.

Lo storico sanremese Andrea Gandolfo ci ha inviato la seconda puntata della sua storia di Sanremo nell’Ottocento, la continuazione della sua narrazione delle vicende storiche della nostra città nel corso del XIX secolo. Il racconto della storia cittadina dall’inizio dell’amministrazione Nota, alla visita del re di Sardegna Carlo Alberto a Sanremo nell’aprile del 1836.

Nel corso della sua attività amministrativa nella città matuziana, l'intendente Nota si era legato in particolare con il medico Siro Andrea Carli, che, appartenente ad una famiglia di ricchi possidenti locali, aveva maturato una notevole esperienza in campo politico e sociale grazie ad una serie di viaggi che egli aveva compiuto in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Inghilterra. L'intendente apprezzò immediatamente le doti del suo giovane amico, che, oltre a conoscere molto bene l'inglese, aveva anche perfettamente assimilato i principi liberali delle istituzioni britanniche. Pensando quindi che la sua grande cultura e preparazione avrebbero potuto giovare alla città, nel 1827 Nota propose Carli alla carica di sindaco di Sanremo, ma il governo piemontese, appurato che il medico sanremese era inequivocabilmente un suddito di stampo liberale, respinse la proposta, rimproverando l'intendente per aver avanzato una richiesta così scriteriata. Per nulla sconfortato da questo rifiuto, Nota ripresentò pochi mesi dopo la candidatura Carli al governo, che questa volta dovette piegarsi alle ragioni dell'intendente, che nel frattempo aveva acquistato una grande popolarità. Il 24 febbraio 1828 venne infine emanato il decreto regio, che ratificava la nomina a sindaco di Sanremo di Carli, che assunse poi ufficialmente la nuova carica il 15 marzo successivo. Il primo e più assillante problema che il nuovo sindaco si trovò ad affrontare fu quello dell'approvvigionamento idrico della città. In quegli anni infatti i Sanremesi erano afflitti dalla siccità ed erano costretti ad attingere l'acqua dalle pozze dei torrenti, filtrandola come potevano con tele e feltri, correndo però il rischio di contrarre delle malattie epidemiche, mentre durante l'estate si mettevano in coda fin dalle prime ore dell'alba per guadagnare un posto vicino ai laghetti maleodoranti dei torrenti. L'acqua mancava inoltre per i giardini e i lavatoi pubblici ed era insufficiente persino per dissetare i circa diecimila abitanti della città. Le uniche fonti d'acqua erano allora rappresentate da due cisterne, tre pozzi pubblici e una piccola fontana fuori dell'abitato, mentre i pozzi perenni erano soltanto quelli del Piano (l'attuale via Corradi) e della Marina, che risultavano però molto scomodi per la maggior parte della popolazione. Le cisterne perdipiù erano spesso vuote perché le acque dei torrenti che dovevano alimentarle erano torbide; uno dei pozzi risentiva inoltre dell'andamento stagionale per cui a volte era secco. In certi periodi dell'anno le donne sanremesi erano costrette, sia di giorno che di notte, a fare lunghe ore di attesa attorno alle cisterne e ai pozzi, aspettando il proprio turno per riempire di acqua le loro conche.

Il 1° aprile 1828 il Consiglio Comunale deliberò di inoltrare una supplica al ministero dell'Interno per ottenere l'acqua in città a vantaggio della popolazione. Il sindaco Carli ricordò in questa occasione che la Vice Intendenza della provincia aveva già invitato il Consiglio, con lettera del 16 febbraio 1826, ad assumere una tale decisione, ma il Consiglio non aveva più fatto nulla. Nel frattempo le necessità della popolazione si erano fatte più pressanti tanto da indurre la Vice Intendenza a riproporre la questione con una lettera dell'11 marzo 1828. L'aiutante anziano del Corpo Reale del Genio Civile Gio Batta Luigi Clerico, incaricato di studiare la questione, comunicò allora alle competenti autorità comunali che la sorgente più ricca e salubre fra quelle che si trovavano nei dintorni della città, scaturiva tra le selci dalle pendici del monte di Pian di Castagna, nel luogo denominato Lago Nero, che distava 4450 metri dalla Piazza Nuova (oggi Piazza Eroi Sanremesi). Secondo il progetto del funzionario del Genio Civile, il canale avrebbe dovuto correre interrato e fornire l'acqua sulla piazza del Capitolo, su quella dei Dolori e di Santo Stefano e sulla Piazza Nuova. Il preventivo della spesa, ammontante complessivamente a 14.290,78 lire, non comprendeva però le spese per la ricostruzione dei selciati che occorreva distruggere per consentire la costruzione del canale e dei ricettacoli. La zona della sorgente non era tuttavia di proprietà comunale in quanto apparteneva ai possidenti locali Giuseppe e Pier Giovanni Ammirati, che tuttavia concessero al Comune, a titolo gratuito, la facoltà di prelevarvi tutta l'acqua necessaria, come venne poi sanzionato ufficialmente con un atto del notaio Francesco Donetti rogato il 21 ottobre 1828. Il 28 maggio intanto la Regia Segreteria di Stato per gli affari interni aveva definitivamente autorizzato il sindaco Carli a permettere che l'Amministrazione Comunale imprendesse la realizzazione di un canale conduttore e la costruzione di quattro fontane pubbliche a beneficio degli abitanti di Sanremo. Nella seduta del Consiglio del 5 luglio fu stabilito che i lavori per il nuovo acquedotto cittadino cominciassero il 14 dello stesso mese; al momento dell'inizio dei lavori, moltissimi abitanti accorsero nella valle del San Michele per fornire il loro contributo alla costruzione del canale che avrebbe finalmente portato l'acqua nella città matuziana.

Non mancarono tuttavia proteste e opposizioni alla realizzazione del progetto del nuovo acquedotto: già il 24 aprile alcuni cittadini avevano presentato un ricorso all'Intendenza contro la deliberazione del Consiglio del 16 aprile, sostenendo che l'acqua non doveva essere incanalata verso la città in quanto essa era indispensabile per innaffiare i campi dove si coltivavano i limoni e per far funzionare i mulini da olio e a grano; contro il progettato acquedotto protestarono anche i proprietari di terreni irrigui e di frantoi della vallata del torrente San Francesco, che portarono la questione all'attenzione del Consiglio Comunale. Proprio durante la seduta del Consiglio dell'11 marzo 1829 il sindaco Carli diede lettura delle regie patenti del 6 febbraio con cui il re di Sardegna avocava a sé la competenza sulle questioni sorte in opposizione alla costruzione delle fontane pubbliche e delegava il vice intendente, il prefetto e l'avvocato fiscale della provincia a raggiungere un amichevole componimento della vertenza tra le parti interessate, incaricando nel contempo il sindaco Carli e il consigliere Giovanni Battista Zirio di tutelare i legittimi interessi della popolazione. Nella successiva seduta del 13 aprile Carli dava lettura del progetto di accordo amichevole tra le parti redatto dalla Regia Delegazione per le fontane, che tuttavia non risolse in via definitiva la questione, destinata a protrarsi ancora per lungo tempo a causa del sorgere di ostacoli imprevisti e nuove difficoltà. Un altro problema di non facile soluzione era costituito dal fatto che la parte della Piazza Nuova dove si voleva erigere una delle fontane e il lavatoio pubblico era di proprietà del beneficio ecclesiastico. Le trattative per l'acquisto di quest'area non erano purtroppo approdate a nulla, e a nulla erano servite le richieste di intervento inoltrate al governo e a Roma. Una notte però il popolo abbattè il muro di cinta, invase il terreno e distrusse tutte le piante che vi si trovavano, consentendo inaspettatamente alle autorità comunali di poter usufruire della piazza per costruirvi la fontana e un lavatoio pubblico, che venne poi terminato nel 1831. Il 15 agosto 1829 l'acqua leggera e fresca della sorgente montana del Lago Nero poteva quindi sgorgare dalle fontane di Piazza dei Dolori, Piazza Capitolo, Piazza di Palazzo (oggi Alberto Nota) e Piazza Nuova.

Due anni dopo la costruzione delle nuove fontane, la città venne nuovamente colpita da un fortissimo terremoto, che causò ingenti danni. La mattina del 26 maggio 1831, infatti, verso le ore 11,25, si verificò una violentissima scossa sismica, che durò per ben quattordici secondi. La folla, che si trovava radunata nelle vie in occasione della fiera di Pentecoste, iniziò allora a fuggire in modo precipitoso nelle campagne circostanti l'abitato e sulle spiagge del mare; moltissimi cittadini cercarono scampo salendo su delle imbarcazioni, altri si attendarono sotto delle vele, altri trovarono rifugio in vecchie capanne, mentre i più sfortunati stettero in disparte a cielo scoperto. Altre forti scosse si ebbero il 27 mattina verso le 5 e il 28 pomeriggio, provocando complessivamente sette vittime nel circondario sanremese. Il sisma causò inoltre gravi danni al patrimonio immobiliare dei numerosi paesi che furono colpiti dalle scosse. A Sanremo pochissimi edifici rimasero illesi; andarono distrutti molti camini e altre opere poste sui tetti delle case, caddero alcune volte e soffitti e si dovettero abbattere diverse case pericolanti che minacciavano di crollare da un momento all'altro. Rimasero in particolare gravemente danneggiati il palazzo del Tribunale e il palazzo Borea d'Olmo, dove si rese necessario abbattere una parte del tetto e un cornicione che si era staccato dalla facciata principale, il monastero della Nunziata, quello della Visitazione, le chiese di Santo Stefano e di Nostra Signora degli Angeli, il convento dei Cappuccini e il santuario della Madonna della Costa, che ebbe vari danni a parti dell'edificio, tra cui l'estremo cupolino, poi divelto nel suo cerchio inferiore. I soccorsi alla popolazione furono allora coordinati dall'intendente Nota, che si volle anche recare, accompagnato dal sindaco Carli e dal farmacista Panizzi, nelle località più colpite per verificare personalmente l'ammontare dei danni causati dal sisma. Ad Arma Nota e i suoi collaboratori visitarono numerose case diroccate, a Taggia constatarono il crollo del castello e la morte di una vecchia sepolta sotto la sua casa, a Castellaro furono accolti dal parroco del paese che mostrò loro cinquantadue case crollate, quarantanove in stato pericolante, e la chiesa parrocchiale che presentava delle crepe nei muri; il parroco informò inoltre Nota e le altre autorità che il terremoto aveva provocato a Castellaro cinque vittime e sedici feriti. Minori danni si registrarono invece nei paesi di Pompeiana, Terzorio, Riva, Santo Stefano, Cipressa, Cipressa, Costarainera e Badalucco, mentre a Bussana crollarono ventiquattro case e altre quarantanove dovettero essere demolite perché in stato pericolante. Subito dopo il terremoto, il governo piemontese, su richiesta dell'intendente Nota, inviò nelle zone colpite dal sisma l'ufficiale delle Miniere della direzione di Genova Mulbrae, che esaminò attentamente la qualità della terra e delle rocce dell'area interessata dal terremoto per verificare se fosse plausibile l'ipotesi che il sisma sarebbe stato provocato da sommovimenti tellurici di alcuni presunti vulcani sotterranei, della cui esistenza però l'ufficiale genovese non trovò alcuna traccia.

Nel 1831 venne anche affrontata la questione dei confini diocesani tra le diocesi di Albenga e Ventimiglia. Approfittando infatti della vacanza della sede vescovile di Albenga, le autorità ecclesiastiche decisero di aggregare alla Diocesi di Ventimiglia venticinque parrocchie, in gran parte appartenenti al comprensorio sanremese, per ricompensare il ritorno di otto parrocchie precedentemente passate alla Francia. Il 20 giugno papa Gregorio XVI emanò la Bolla Pontificia Ex iniuncto Nobis Coelitus, che stabiliva ufficialmente i nuovi confini diocesani tra Albenga e Ventimiglia. Il successivo 22 agosto l'arcivescovo di Genova Giuseppe Airenti, nell'aula magna dell'episcopio e alla presenza delle più alte cariche ecclesiastiche delle due diocesi interessate, trasmise al vescovo di Ventimiglia Giovan Battista D'Albertis la piena giurisdizione sulle nuove parrocchie. Il 27 agosto il vescovo D'Albertis prese solenne possesso della collegiata parrocchiale di San Siro a Sanremo alla presenza del parroco Nicolò Morardi e dei rappresentanti del clero cittadino. In base alla nuova ripartizione, la Diocesi di Ventimiglia inglobava dalla Diocesi di Albenga i comuni di Sanremo, Andagna, Badalucco, Boscomare, Bussana, Carpasio, Castellaro, Ceriana, Cipressa, Coldirodi, Molini di Triora, Montalto, Poggio, Pompeiana, Riva, Santo Stefano, Taggia, Terzorio, Corte, Costarainera, Lingueglietta, San Lorenzo, Triora, Torre Paponi e Verezzo, e da quella di Nizza le località di Dolceacqua, Apricale, Buggio, Isolabona, Perinaldo, Pigna, Rocchetta Nervina e Seborga. Dopo oltre cinque secoli di dipendenza diocesana da Albenga, la comunità e il circondario di Sanremo vennero finalmente ricongiunti alla Diocesi di Ventimiglia, che poteva così continuare la sua missione pastorale a fianco delle altre diocesi del Regno di Sardegna. Pochi mesi dopo l'aggregazione di Sanremo alla Diocesi di Ventimiglia, l'11 ottobre 1831, il nuovo sovrano sardo Carlo Alberto decise di trasferire a Pinerolo l'intendente Nota, che, al termine della sua esperienza nella città matuziana, lasciò buon nome di sé presso la popolazione e gli amministratori locali, che vollero degnamente ricompensare il suo impegno a favore della comunità sanremese conferendogli la cittadinanza onoraria e dedicando in seguito alla sua memoria anche una piazza cittadina.

In questo periodo venne anche curata la riorganizzazione di speciali enti ecclesiastici per la tutela degli interessi della comunità. Tra questi spiccava l'Opera Pia San Romolo, che, già fondata agli inizi del Settecento per curare i diritti e i pochi beni spettanti alla Bauma e all'Eremo di San Romolo, fu riorganizzata nel 1832 su iniziativa del vescovo di Ventimiglia D'Albertis. Inizialmente il vescovo ventimigliese pensò di annettere semplicemente i locali dell'Eremo al seminario vescovile in forza della Bolla Pontificia emanata da Innocenzo X il 13 ottobre 1632, che devolveva ai vescovi i beni dei conventi; in seguito tuttavia monsignor D'Albertis, forse su consiglio di qualche suo collaboratore, rinunciò a questo progetto, proseguendo però con grande impegno nel suo intento di ristrutturare l'Opera Pia, che era da tempo inattiva. Radunato il clero sanremese il 31 agosto 1832 nell'Oratorio di San Germano, il vescovo organizzò una consultazione tra i presenti al fine di nominare tre sacerdoti, che avrebbero dovuto compilare un nuovo Regolamento per l'Opera Pia di San Romolo. Vennero eletti il provicario foraneo Giacomo Margotti, il canonico Giacomo Carbone e don Antonio Massabò, che, sotto la direzione dell'intraprendente vescovo ventimigliese, già venti giorni dopo avevano completato la redazione del Regolamento. Il testo del Regolamento venne infine approvato ufficialmente dal vescovo il 20 settembre 1832 con un decreto vescovile, con cui veniva anche nominato don Margotti presidente del sodalizio al fine di procedere velocemente all'applicazione delle norme contenute nel Regolamento, che sancì la definitiva riorganizzazione dell'Opera Pia San Romolo, destinata a svolgere ancora la sua benefica attività per oltre un secolo. Intanto continuava alacremente l'attività del sindaco Carli per rifornire di acqua il centro cittadino, nel quale venne deliberato di costruire una nuova fontana il 18 agosto 1834. La fontana, ubicata nel quartiere della Marina nell'attuale Piazza Bresca e modellata a forma di obelisco per ricordare l'obelisco romano salvato da Bresca con il celebre grido «aiga ae corde», venne quindi attivata nello stesso 1834 per soddisfare le accresciute esigenze idriche del popoloso quartiere sanremese. Due anni dopo il re di Sardegna Carlo Alberto, che era diretto a Ventimiglia per ispezionarvi le locali fortificazioni, decise di fermarsi a Sanremo per una breve visita alla città. L'11 aprile 1836 Carlo Alberto sostò per qualche ora nella città matuziana accolto dalle massime autorità del Comune e della Provincia. In questa occasione il sovrano sardo, favorevolmente impressionato dalla particolare amenità e salubrità del luogo, pensò che tale località sarebbe stata ideale per accogliervi un lebbrosario, che sarebbe stato istituito dieci anni dopo con un decreto emanato dallo stesso Carlo Alberto il 23 dicembre 1846. Il nuovo Lebbrosario, posto sotto l'amministrazione generale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, fu quindi sistemato nei locali dell'ex convento di San Nicola. In seguito, data la forte diminuzione dei malati di lebbra, il Lebbrosario di Sanremo sarebbe stato infine ridotto a Ospedale di isolamento. Nel 1858, infine, Vittorio Emanuele II, essendo diventato ormai insufficiente per le esigenze della città il vecchio ospedale napoleonico, fece destinare ed attrezzare tutti i locali rimanenti dell'ex convento nicolita a nuova sede dell'Ospedale Civile, affidandone contestualmente la gestione all'Ordine mauriziano. Sanremo venne così finalmente dotata di una grande struttura ospedaliera adeguata alle necessità della sua ormai numerosa popolazione.

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