ELEZIONI COMUNE DI SANREMO
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In Breve

| 27 gennaio 2015, 15:02

'Goccia del mare', il racconto di un lettore per commemorare la 'Giornata della Memoria'

Enzo ci invia la prima parte di un breve racconto ambientato a Sanremo durante la Seconda guerra mondiale. Il protagonista è Remo, un bambino di 10 anni che incontra una bambina ebrea di nome Myriam che in ebraico significa 'goccia del mare'

'Goccia del mare', il racconto di un lettore per commemorare la 'Giornata della Memoria'

Goccia del mare

racconto di Enzo I.

Sì chiamava “goccia del mare”. Ma questo lo sapevo solo io. Per i nostri compagni di scuola lei era Maria.

Era bella. Oh, se lo era. Anche se non avevo ancora dieci anni, quel pomeriggio di maggio del 1940 scoprii che la bellezza di uno sguardo può togliere il fiato.

L'avevo conosciuta il primo giorno che venne ad abitare vicino a casa mia.

Non era di Sanremo. Veniva da Roma ed era sola, quando arrivò in quel tardo pomeriggio di primavera. La corriera la lasciò all’ultima curva, prima di girare e tornarsene giù. Io me ne stavo seduto sul muretto accanto alla fermata, col mio fischietto in bocca. Ricordo ancora adesso che quando me la trovai a pochi passi davanti a me il fischietto mi cadde dalle labbra e finì per terra. Lei guardava nella mia direzione; il sole alle mie spalle stava tramontando e lei restò a fissarlo facendosi schermo con le mani. Forse non mi vedeva poiché ero in controluce, ma io la vedevo benissimo.

Aveva i capelli rossi, corti quasi quanto i miei e indossava una giacchetta verde che in seguito non le vidi mai levarsi; la portava sempre, anche sopra il grembiule nero della scuola.

Notai anche che aveva con sé una valigetta rossa; da come la sollevava doveva essere quasi vuota. Anche da quella non la vidi staccarsi quasi mai, credo che ci mettesse dentro la roba per la scuola e poco altro.

Là dove abitavo io, in campagna, un po’ in alto sulla collina, lungo la  strada che porta su a San Romolo, c’era solo qualche bambino della mia età e nessuna bambina. Perciò decisi che dovevo conoscerla.

- Quello è Capo Nero e poi là dietro c'è la Francia,  - dissi.

- Ed è molto lontana? - chiese lei.

La sua voce era dolce, come il miele di acacia che la mia mamma scioglieva nel latte caldo per farmi passare la tosse.

- La Francia? Noooooo, basta andare a Ventimiglia e in un attimo sei lì.

In realtà non c'ero mai stato in Francia, ma volevo fare colpo. A essere sincero non avevo mai messo piede nemmeno a Ventimiglia,  ma sapevo che era da lì che si passava per andare oltre frontiera. Ne avevo sentito parlare tante volte dai grandi che raccontavano le storie di chi se n'era andato a cercare fortuna.

Lei scrutò verso la direzione che le stavo indicando, come se cercasse un punto preciso. Sorrise, ed era ancora più bella.

- Se un  giorno vuoi andare in Francia ti ci posso portare io, - proposi scendendo dal muretto.

Detto con sincerità, la mia conoscenza del mondo si limitava alla campagna attorno a casa mia e a qualche carruggio di Sanremo vecchia, dove andavo al catechismo, ma ciò sul momento mi sembrò trascurabile rispetto alla possibilità di fare una gita con lei.

- Magari un  giorno..., - mi rispose sovrappensiero, mentre le si spegneva il sorriso sul volto.

Raccolse la valigetta e si girò per andarsene.

Raccattai rapidamente il mio fischietto e cominciai a suonarlo forte per farle sentire quanto ero bravo. Lo avevo ricavato da un semplice pezzetto di canna intagliata col mio temperino; sapevo usarlo molto bene e ne facevo uscire delle melodie bellissime.  O almeno così pareva a me.

La raggiunsi. - Lo vuoi?

- Cos'è?

- Un fischietto. L'ho fatto io. Puoi suonare quello che vuoi, è quasi come un flauto. Basta solo esercitarsi un pochetto.

- No, grazie.

- Non ti piace la musica?

- No, non è questo.

- E perché allora?

- Niente, è che.... non ti conosco nemmeno.

Aveva ragione. Ci conoscevamo da appena un minuto, come poteva fidarsi di me? Ci pensai su un attimo, poi stesi la mano.

- Io mi chiamo Remo, come la mia città, e ho nove anni e mezzo. E tu?

Rise e si portò le mani davanti alla bocca. Era bellissima. Sì, questo l'ho già detto, ma potrei continuare a ripeterlo all'infinito e non sarebbe abbastanza. Mi venne in mente che forse non avrei dovuto darle la mano: ormai vedevo che gli adulti si salutavano levando il braccio; lo chiamavano saluto romano. Comunque lei non sembrò farci caso e mi porse la sua.

- Io sono Maria, vengo da Roma e compio nove anni oggi, - disse facendo mezzo passo indietro per un piccolo inchino.

- Allora questo è il mio regalo per il tuo compleanno, - feci io porgendole di nuovo il fischietto e imitando il suo inchino.

- Va bene, lo accetto. Grazie. Ma adesso devo andare.

Lo mise in tasca e si incamminò.

Le concessi una decina di passi, poi le fui di nuovo accanto.

-  Allora siamo d'accordo, poi mi farai sapere quando vuoi andare in Francia. Adesso che ci penso possiamo andarci con Benito.

- E chi sarebbe Benito?

- Ah, be', è l'asino di mio nonno, ma da quando lui non c'è più me ne occupo io. Vedrai che con un sacchetto di biada e due carote ci porta fino a Parigi!

- Va bene, Remo, te lo farò sapere, ma adesso ti prego, lasciami andare prima che faccia buio. Mi aspettano.

- Sì, sì, non voglio farti ritardare. Vai pure dove devi andare.

Morivo dalla voglia di domandare dove, ma la mia mamma mi diceva sempre che non era buona educazione farsi gli affari altrui. Perciò evitai, ma non potevo fare a meno di essere curioso. Una ragazzina così carina e ben vestita che arrivava da Roma - sola - e si fermava proprio a due passi da casa mia - praticamente in aperta campagna - mi faceva galoppare la fantasia su varie domande: perché, come mai da sola, ma soprattutto dove. Dove era diretta?

Non c'erano molte case dalle mie parti e io conoscevo tutti quelli che ci abitavano. Non riuscivo proprio a immaginare dove stesse andando Maria.

Mi rimisi a sedere sul muretto e la vidi allontanarsi con la sua valigetta rossa. Prese il sentiero che portava giù al fiume. Rimasi stupito. L'unica abitazione che si incontrava procedendo in quella direzione era la casa degli ebrei. Non sapevo perché si chiamasse così e non avevo alcuna idea di cosa significava quella parola che mia madre, le rare volte che gliela avevo sentita dire, pronunciava sempre a voce molto bassa, quasi in un bisbiglio.

Fine prima parte

Redazione

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