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Infermiere e salute | 09 ottobre 2012, 08:01

Questa settimana torniamo a parlare di gravi patologie del bambino con addirittura cinque protagonisti in Prima Linea, un racconto che val la pena di leggere fino in fondo

Questa settimana torniamo a parlare di gravi patologie del bambino con addirittura cinque protagonisti in Prima Linea, un racconto che val la pena di leggere fino in fondo

L’ANEMIA DI DIAMOND BLACKFAN, LA MIA COMPAGNA

 

“Questa malattia è sempre con me: ogni volta che faccio qualcosa che va fuori dalla solita routine, affaticando troppo il mio fisico, lei si presenta a chiedere il conto”

 

Ringraziamo  Carlo Rota Presidente dell’Istituto Piemontese per l’Anemia di Diamond Blackfan, Franca Parizzi Pediatra, Consiglio Direttivo Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPeM), Nicoletta Masera e Daniela Longoni, Pediatre, Clinica Pediatrica dell’Università di Milano Bicocca, Ospedale San Gerardo di Monza, Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la Mamma (FMBBM); infine  Giuseppe Masera Responsabile del Progetto, Clinica Pediatrica dell’Università di Milano Bicocca, Ospedale San Gerardo di Monza, Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la Mamma (MBBM)

 

Diamo quindi a loro lo spazio che meglio desiderano per dscrivere al meglio questa patologia.

 

 

La malattia                                        

 

L’anemia di Diamond Blackfan (DBA) è un’anemia cronica, rara, su base genetica, caratterizzata da eritroblastopenia. Colpisce selettivamente la serie rossa e il quadro clinico è caratterizzato da una grave anemia con reticolocitopenia, che si manifesta giá nei primi mesi di vita, a volte associata a malformazioni congenite e a un rischio aumentato di insorgenza di neoplasie. Circa il 40% dei soggetti affetti da DBA presentano malformazioni congenite che possono interessare diversi distretti corporei (pollice trifalangeo, palatoschisi, malformazioni urogenitali e cardiovascolari). È frequente la bassa statura, dovuta in parte alla malattia e in parte alle complicanze della terapia (steroidi, emocromatosi).

In Italia l'incidenza della DBA é circa 6,5 casi l'anno per milione di nati. Nella maggior parte dei casi la malattia è sporadica, solo nel 10-20% dei casi si trasmette come carattere autosomico dominante. Sono ugualmente colpiti i maschi e le femmine e non si rileva una diversa distribuzione in differenti aree geografiche o etnie.

I cardini della terapia sono i cortisonici o le emotrasfusioni. Più della metà dei soggetti vengono curati con i corticosteroidi, ma quelli che non rispondono al trattamento richiedono un regime trasfusionale cronico, che comporta inevitabilmente un progressivo accumulo marziale sistemico e di conseguenza la necessitá di una terapia ferrochelante. Attualmente la ferrochelazione è resa meno gravosa dall’introduzione di un chelante orale, il deferasirox, di cui i pazienti possono usufruire in alternativa alla desferioxamina, la cui somministrazione avviene per via sottocutanea quotidiana per 10 ore notturne

Nei casi in cui vi sia un donatore idoneo è da prendere in considerazione il trapianto di midollo osseo. Non esistono al momento attuale altre opzioni terapeutiche.

 

L’Associazione e la raccolta delle storie  

 

L’Istituto Piemontese per l’Anemia di Diamond Blackfan (DBA) si è costituito il 31 Dicembre 2009 come Associazione onlus con le seguenti finalitá:

-    promuovere e sostenere la ricerca scientifica e lo studio della malattia, degli effetti collaterali dei trattamenti utilizzati e dei problemi connessi e la ricerca psicologica sulla qualità della vita dei soggetti affetti da DBA;

-    contribuire a una diffusione della conoscenza della malattia;

-    favorire incontri e convegni tra medici di base, specialisti, pediatri, ematologi, ricercatori, genetisti e pazienti per approfondire le problematiche connesse alla diagnosi e alle terapie;

-    favorire la comunicazione tra medici e pazienti per una migliore gestione della malattia.

In queste finalitá si colloca il progetto di raccolta delle narrazioni, cui l’Associazione ha aderito con entusiasmo e interesse, ritenendo importante fare emergere il vissuto, i bisogni e le aspettative dei pazienti e delle loro famiglie e rafforzare l’alleanza con l’équipe di cura.

Sono pervenute otto narrazioni, delle quali due scritte in prima persona da persone malate (una donna adulta e una ragazza diciassettenne), due scritte separatamente da ciascuno dei genitori di una bambina malata e quattro dalle mamme di bambini affetti da DBA (una bambina è nata e vive in Serbia).

 

Il supporto fondamentale delle associazioni                                                         

 

Una donna adulta, alla quale è stata comunicata la diagnosi di DBA all’etá di 33 anni, scrive: “Mi misi a cercare nell'oceano di Internet qualcuno con cui condividere la mia situazione. In Italia non trovai nessuna Associazione, la più vicina si trovava in Germania, a Francoforte. Presi contatto con loro e cominciai ad andare agli incontri che organizzavano.

Conoscere altre persone con i miei stessi problemi mi ha fatto sentire meno sola. In più, frequentare un gruppo di persone attivamente impegnate sul fronte della malattia mi ha permesso di scoprire aspetti molto utili di cui i medici non mi avevano mai parlato. Per esempio ho scoperto di poter avere l'esenzione ticket per i farmaci e che all'Università di Torino esisteva un Centro che studiava questa malattia. Ora sono in cura da loro. Un giorno, tornando da uno di questi viaggi, mi è venuto in mente di creare un'Associazione simile anche in Italia. Con una sfilata di bijoux e borse creati da me e da due miei amici, nel settembre 2005 ho raccolto i primi fondi e aperto il primo libretto di risparmio al fine di creare il sito web dell'Associazione. Poi sono arrivati i primi soci, una famiglia con un bimbo piccolissimo curato con trasfusioni frequenti e poi altre famiglie con le loro storie da raccontare. Ogni persona che ho incontrato è riuscita a trasmettermi nuova energia dandomi lo stimolo per non mollare anche se, a causa della malattia, la mia vita è totalmente cambiata. La nostra Associazione ha molteplici progetti, uno di questi, per esempio, è stato finanziare l'istituzione e la creazione di un registro italiano della DBA, che fino a oggi è stato per lo più cartaceo e poco informativo. Il registro servirà per raccogliere e studiare i dati clinici dei pazienti: l’analisi molecolare e la consulenza genetica per la valutazione dei donatori di midollo osseo, creando così una banca dati utilissima per lo studio dell’evoluzione della  patologia. Oggi la  mia speranza è quella di veder crescere la nostra Associazione aumentando il numero dei soci, al fine di avere più confronti e più punti di vista. Il nostro scambio di esperienze ci permetterà di non essere più soli aiutandoci a porre l’attenzione dell’opinione pubblica su questa malattia”.

Scrive la mamma di una bambina malata:Abbiamo conosciuto persone con cui confrontarci direttamente, abbiamo fatto tesoro dei loro consigli e delle loro esperienze di vita quotidiana e ci siamo sentiti parte di una famiglia allargata. Insieme si può vincere e sperare  in un futuro migliore  per tutti i nostri  bambini” E un’altra mamma: “È stata un'esperienza fantastica conoscere altri genitori come noi e altri bambini come nostro figlio. Abbiamo appreso cose che ignoravamo e siamo andati via con tante speranze in più”.

La mamma di una bambina serba di 7 anni, che ha ricevuto la diagnosi nel secondo anno di vita presso la Children University Clinic di Belgrado e ha preso successivamente contatto con l’Associazione e il Centro dell’Universitá di Torino per effettuare i test genetici, testimonia invece una realtà totalmente diversa nel suo Paese: “No DBA register in Serbia. No support group for the DBA in Serbia. I have never met people with DBA in Serbia. I felt very lonely”.

 

Medici, Famiglia, Pazienti

 

L’impatto con la diagnosi, l’incertezza terapeutica, soprattutto l’eventualitá di un trapianto di midollo osseo, che espone il figlio al rischio di gravi complicanze a fronte di un possibile successo, rappresentano situazioni di forte stress e sofferenza per i genitori, nelle quali la relazione con i curanti gioca un ruolo fondamentale.

La mamma di un bambino di tre anni affetto da DBA ricorda cosí l’incontro con la pediatra di famiglia - dalla quale aveva condotto il piccolo per la comparsa di febbre quando aveva poco piú di un mese di vita - e il primo impatto con l’ospedale: “La pediatra, che ormai conosco e stimo da anni, mi rassicura, o almeno ci prova… non ho mai visto quelle espressioni nel suo viso in tre anni. Vado in ospedale con la speranza che tutto risulti nella norma, spero mi dicano di mettere una Tachipirina e andare a casa; in effetti da un primo esame obiettivo i medici mi sembrano tranquilli, finché improvvisamente due medici e due infermieri non si catapultano sopra il mio bambino, io ero seduta accanto a lui e leggevo una rivista mentre dormiva, e sono scattata in piedi smarrita, non capivo quella incursione. Li sento parlare tra loro «a me non sembra, avranno sbagliato, li rifacciamo»  dice uno dei dottori e tutti concordano con lui. Poi si gira verso di me, che stavo lì in piedi a cercare di capire, e mi dice che le analisi hanno rilevato un livello preoccupante di globuli rossi, ma secondo lui ha sbagliato il laboratorio di analisi, perché il bambino non sembra per nulla pallido. Mi tranquillizzo e mi siedo nuovamente. La tranquillità dura il tempo del nuovo risultato che conferma il primo”.

La mamma di un bambino di quattro anni racconta esperienze infelici nella relazione con alcuni medici: “Nel momento in cui il primario del reparto di Oncologia della nostra città ha saputo che noi seguivamo le indicazioni e i dosaggi di un altro professore, ci ha letteralmente sbattuto la porta in faccia, non visita più nostro figlio, non mi saluta (l'ultimo dei miei problemi!) e l'ultima frase detta da questo «medico» è stata: «Ma lei crede di poter continuare a lavorare con un figlio ammalato così gravemente!?!» Ma mi è stato anche detto che a loro non interessa se il bambino può riscontrare problemi psicologici gravi, a loro interessa salvargli solo la vita e che in quel reparto non gli faranno mai il trapianto del midollo, perché secondo loro ha una «vita accettabile»! Ma quale madre non cerca di dare al proprio bambino una vita il più possibile serena, felice e sana?”

 

 

Sensi di colpa e incertezze

 

L’impatto con la diagnosi, ma soprattutto la consapevolezza di aver trasmesso il difetto genetico al proprio figlio, comporta inevitabilmente nei genitori il senso di colpa, al quale si aggiungono, come ulteriori fattori di stress, le incertezze e i problemi connessi al trattamento cronico della malattia, sia esso cortisonico che, in assenza di risposta clinica, trasfusionale, con tutte le conseguenze della terapia ferrochelante.  

Scrive una mamma: “Inizialmente l'impatto è stato negativo e dai primi incontri con i medici, che spiegavano le complicanze e le caratteristiche della malattia, la situazione non ci era parsa certo incoraggiante. L’iter sarebbe iniziato con la prova dell’unica terapia conosciuta per la DBA: la somministrazione di cortisone per vedere la reazione della bambina e stabilire la possibilità di proseguire con la terapia o passare alle trasfusioni croniche. Nel frattempo sono stati effettuati degli esami anche a noi per stabilire l’eventuale ereditarietà della malattia. Abbiamo così  scoperto che il papà aveva la stessa mutazione genetica, pur non avendo avuto mai problemi. Si è presentato così il senso di colpa per aver trasmesso la malattia alla bambina, ma fortunatamente parenti e amici ci hanno fatto comprendere che era praticamente impossibile prevedere la situazione e che l'unica cosa importante era occuparsi di lei”.

Scrive la mamma di un bambino malato di tre anni: “I nostri equilibri stanno traballando e pensiamo a un terzo figlio anche per un'eventuale trapianto, visto che il fratello non è compatibile. Ma il problema è che io ho il gene mutato, quindi rischiamo di mettere al mondo un bambino con la DBA, e poi ci poniamo anche il problema che, anche se fosse sano, ma non fosse compatibile, cosa facciamo?”

Decidere di sottoporre il proprio figlio al trapianto di midollo osseo è una scelta difficile e sofferta, 

Il papá di una bambina di sette anni scrive: “Ricordo ancora oggi il lungo e dettagliato incontro con la dottoressa, che ci spiegò aspetti positivi e negativi legati a questa scelta. Come dico sempre, non auguro al mio peggior nemico di dover decidere sulla vita dei propri figli. É una scelta che, comunque vada, si presta sempre ad avere i suoi lati negativi sia in un verso che nell’altro. Critiche che per di più potrebbero esserci poi rinfacciate proprio dalla bambina nel giorno in cui dovesse diventare adulta. Molto meglio se fossimo costretti a scegliere. Non voglio neanche affrontare il tema più grave e terrorizzante della eventuale perdita durante il trapianto! Vorrei altresì sorvolare sul freddo e spietato parere datoci da un altro luminare in materia. Mentre mi colpirono molto le parole della dottoressa quando disse che anche per lei non era facile affrontare quel colloquio, in quanto nel nostro caso il trapianto non è obbligato, non è questione di vita o di morte, ma di correre il rischio di farla guarire oppure di non modificare lo status quo e magari aggravare la situazione”.

 

La resilienza

 

In tre delle otto narrazioni raccolte si rileva una resilienza, dovuta allo sviluppo di capacitá di vivere intensamente il presente senza porsi interrogativi sul futuro, ma soprattutto al supporto fornito dall’Associazione e alla fiducia nella ricerca.  

Scrive la mamma di un bambino malato di otto anni: Quello che ci conforta di più è che oggi la vita di nostro figlio è assolutamente normale, ci rende felici percepire che è sereno e che riesce a fare tutto quello che desidera e che un bimbo della sua età vuole fare; ed è in questi momenti che penso, forse incoscientemente, di non voler sapere cosa ci riserva la malattia per il futuro. É in questi casi che mi ritrovo contenta di aver smesso di consultare Internet nella speranza di trovare chissà quali notizie o rivelazioni, è in questi casi che sono contenta che esistano ricercatori seri e competenti che pensano a noi”.

Scrive un’altra mamma: “Sicuramente inizialmente le attenzioni per la bambina sono cambiate in confronto a quando non sapevamo che fosse malata. Però solo inizialmente, perché col tempo la cosa che abbiamo capito è che il meglio per lei è trattarla il più possibile come una bambina che non ha problemi, cercando con il tempo di farle apprendere pian piano, in base alla sua età, che cosa comporti la sua malattia. Per questo motivo cerchiamo di comportarci con lei nel modo più normale possibile, dedicandole il tempo che abbiamo a disposizione, come avremmo fatto se non ci fosse stata la malattia. Diciamo che la nostra vita  è cambiata perché abbiamo dovuto farcene una ragione, ma la nostra vita viene vissuta giorno per giorno senza pensare ai «se», «ma»,«forse»  del  domani. Cerchiamo  di  pensare  ai problemi quando si presentano, senza anticiparne i tempi, per poter vivere nel modo più normale possibile. L'obiettivo, che va perseguito con caparbietà e spirito di collaborazione tra le parti, è quello di aiutare i medici ad aiutare i nostri  figli e continuare quindi a promuovere eventi che consentano ai medici e alle Associazioni di finanziare i gruppi di ricerca. Insieme si può vincere e sperare  in un futuro migliore  per tutti i nostri  bambini”.

La narrazione di una mamma di un bambino di quattro anni testimonia un certo grado di reattivitá, ma non resilienza, intesa come la capacitá di trasformare un evento negativo, quale la malattia, in un’occasione di crescita umana personale: “Per mia fortuna - e non so dove riesco ancora a trovarla - vado avanti da sola, cercando la forza in ogni sorriso di mio figlio, crollando solo in momenti che sono sola. Alla faccia dell'ignoranza e presunzione di certi medici, ho un BAMBINO SANO, che parla due lingue, disegna, va all'asilo, nuota da solo, pattina ed è FELICE!”

 

La sofferenza

 

La sofferenza, nonostante la capacitá di adattamento alla malattia e in alcuni casi di resilienza, è evidente in ogni racconto e si ritrova nei diversi brani riportati nel testo. È significativo un brano tratto dalla narrazione di una ragazza diciassettenne malata che rivela un senso di solitudine e incomunicabilitá nei rapporti sociali: “Durante l’alternarsi di terapie e visite varie mi sono spesso sentita sola per la difficoltà di far capire e spesso anche solo di dire a chiunque - familiari, amici, insegnanti, medici - quello che stavo vivendo e quello che stavo provando (esperienze, situazioni, stanchezza, fatica, malumore, tristezza, paura...)”.

È significativo un caso in cui la narrazione, scritta separatamente da entrambi i genitori di una bambina malata, abbia consentito loro di comunicare l’uno all’altro le sofferenze vissute e altrimenti riservate, rappresentando uno strumento utile non soltanto sul piano individuale per liberare ed elaborare le proprie emozioni, ma anche per condividerle rafforzando il rapporto di coppia.  

 

Da storie vere

 

Dalla storia scritta da una paziente di 33 anni: «La DBA è stata la compagna invisibile della mia vita, una presenza nascosta la cui identità mi è stata rivelata solo all'età di 33 anni. A pensarci ora, mi sembra incredibile aver vissuto fino a pochi anni fa quasi totalmente all'oscuro del mio male. Credo che sia dipeso da un insieme di fattori concomitanti: primo fra tutti la rarità della malattia che, assieme all'eterogeneità genetica e alla variabilità delle caratteristiche cliniche, rendono particolarmente difficile la sua diagnosi. Inoltre c'è da aggiungere che negli anni ‘70, quando sono nata, la DBA in Italia era pressoché sconosciuta. Così, oltre a non aver mai avuto una diagnosi certa, mi sono mancate delle spiegazioni esaurienti che mi aiutassero a capire l’entità della mia malattia. Infine c'è anche la paura di vedere e quindi, di fronte a un insieme di informazioni nebulose e poco chiare, spesso si tende a cogliere solo quelle che fanno più piacere, evitando di guardare in faccia la realtà fino a quando la malattia non ti esplode in piena faccia mostrandosi in tutta la sua gravità. Mi curarono con il cortisone e continuai a prenderlo fino all'età di tredici anni. Il cortisone, com’è noto, ha diversi effetti collaterali, tra cui quello di abbassare le difese immunitarie rendendoti più esposto agli attacchi dall'esterno, quindi, anche se la mia anemia veniva curata, io non stavo mai veramente bene, bastava un piccolo sforzo o un colpo di freddo a farmi ammalare e, una volta malata, ci mettevo molto più tempo di qualsiasi persona normale a guarire. Fu per questo che, quando un medico ci disse che con la pubertà sarei guarita, accogliemmo la notizia come una vera liberazione. Avevo tredici anni e smisi di curarmi: senza il cortisone mi sembrava veramente di stare meglio, inoltre, come ho scoperto in seguito, il mio corpo è in grado di produrre autonomamente fino a 6 g/ml di emoglobina (circa la metà di quanto fa una persona normale) e quindi era riuscito ad adattarsi alla nuova situazione, facendomi pensare di essere guarita. Ho sempre condotto una vita regolare, senza eccessivi sforzi e questo ha contribuito a farmi sentire "bene", anche se in realtà la DBA era sempre con me e, ogni volta che facevo qualcosa che andava fuori dalla mia solita routine, affaticando troppo il mio fisico, lei si presentava a chiedere il conto”. Dopo tre ricoveri in ospedale, la stessa paziente scrive: “Ad ogni ricovero, mi veniva diagnosticata l'anemia, ma rimaneva un male senza nome, che sembrava essere solo una debolezza del mio corpo, pronta a esplodere ogni qual volta cercassi di spingerlo oltre le sue capacità. Subito dopo queste crisi, riprendevo a curarmi col cortisone, ma, non essendo realmente a conoscenza della gravità della mia situazione, appena cominciavo a sentirmi meglio, interrompevo la cura. Incoscienza, cecità, cattiva informazione? Come ho detto prima, un insieme di tutti e tre i fattori e poi una gran voglia di sentirmi normale, vivere come tutti gli altri, portare avanti la mia carriera, anche se significava viaggiare spesso e di conseguenza indebolirmi. Il mio fisico stava cedendo lentamente e i tre crolli che avevo avuto, assieme ad altri innumerevoli piccoli segnali, erano il suo modo di avvisarmi, come se cercasse di dirmi «tu hai qualcosa, guarda!». Io però non riuscivo a capirlo, capivo alla perfezione le lingue straniere, ma non riuscivo a comprendere il linguaggio del mio corpo. Poi un giorno mi esplose un'influenza anomala e per tre settimane fui preda di una febbre altissima. La bocca e la gola si erano riempite di placche, mi sentivo morire. Ero lontana da casa per lavoro e, quando finalmente riuscii a rientrare e farmi ricoverare, sentii per la prima volta la mia diagnosi: anemia di Blackfan Diamond. «É una malattia genetica rara — mi dissero — lei è il nostro unico caso».

Concludiamo con un brano tratto dalla narrazione del padre di una bambina malata di sette anni: “Mi ricordo il mio primo impatto con il day hospital del Centro di riferimento, un bellissimo reparto, coloratissimo, pieno di giochi e di persone e dopo aver guardato, come un bambino, i piccoli pazienti, sentivo e vedevo nei loro occhi la sofferenza, ma ancor peggio la loro rassegnazione. Dopo cinque minuti mi venne voglia di scappare via. Non lo feci, fui letteralmente terrorizzato e paralizzato. Oggi non ho più quella sensazione, ma gli sguardi dei bambini non sono cambiati”.

 

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Roberto Pioppo

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