ELEZIONI COMUNE DI SANREMO
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In Breve

| 25 aprile 2012, 06:00

Le storie del vescovo Agostino Rousset.....

Le storie del vescovo Agostino Rousset.....

A scapito della loro vita, sotto la guida del vescovo Agostino Rousset, il Vicario Foraneo, Filippo Anfosso, Don Giovanni Orengo e Mons. Antonio Borea difesero e protessero il loro gregge, con immani sacrificio. Non ricevettero la medaglia dei “Giusti tra leNazioni”, ma misero in salvo numerosi ebrei a Sanremo troviamo altre persone coordinate dal cappuccino P. Giacinto Logomarsino da Genova, delegato dal Vescovo ( ne parleremo in un secondo tempo).

      II Vescovo Agostino Rousset, agli inizi del 1943, si trovò a dovere fronteggia e accollarsi dei problemi non attinenti alla sua missione di pastore d’anime; la presenza dei Tedeschi e le dure maniere delle autorità militari nei suoi confronti, lo allarmarono tanto che, alla sua proverbiale ed innata diplomazia, sostituì la prudenza ma non l'azione segreta. Non fu cospiratore dichiarato, ma mai mancò di aiutare i Ventimigliesi e i suoi diocesani, anche a rischio della vita. Tenne contatti con le autorità provinciali e militari italiane; si preoccupò e pretese conoscere le disposizioni al momento dello sfollamento, redarguì energicamente il comportamento dei gerarchi locali con diplomatica denuncia ai loro superiori; impostogli di scrivere una lettera ai sacerdoti e ai fedeli della diocesi a praticare rispetto e aiuto alle truppe occupanti, fu sua risposta verbale e scritta: «Mai e poi mai, n’andasse la vita». Minacciato d’arresto e di deportazione sulla porta della Cattedrale rispose: «Se Dio lo vuole, così sia». Si chiuse in se stesso; ai sacerdoti consigliava la prudenza che non voleva significare disinteresse e, quando, alcuni sacerdoti furono imprigionati e accusati di partigianeria, insorse a loro difesa; con due abboccamenti notturni in Ospedaletti presso il Comando tedesco di zona, ottenne la liberazione di 22 ostaggi, già condannati alla fucilazione. Venuto a conoscenza che alcuni giovani di Ventimiglia avevano scelto la via della clandestinità volle essere informato; non mancò di far giungere aiuti e inviò, volontario, un cappellano. «Sono pur i miei figli», egli diceva.

            Dichiarazione del Comandante della II divisione Garibaldina

Il Capo di Stato Maggiore e Ufficiale delle Operazioni, Avv. Izzo (Fragola) scriveva «Posso non ricordare la figura luminosa di Mons. Agostino Rousset della Diocesi di Ventimiglia durante la Resistenza. Egli nulla concesse al nazifascismo schierandosi apertamente a fianco degli oppressi e dei perseguitati, né si preoccupò della sua incolumità personale quando fu minacciato di deportazione dai Tedeschi. Fu il nostro Vescovo. C’inviò il Cappellano don Micheletto con la sua benedizione, dichiarando che ci portava nel suo cuore. Una Brigata Garibaldi che nasceva con la benedizione del Vescovo e col suo Cappellano, perciò il Clero regolare e secolare trasse avvallo e conforto dal suo esempio, nella lotta contro il nazifascismo». Grosso problema e continuo tormento per il Vescovo era la sorte futura dei paesi della Val Roia e della stessa Ventimiglia, che con tutta probabilità, al termine della guerra, sarebbero stati annessi alla Francia Libera. Di tale problema scrisse alla Santa Sede, domandando modi di comportamento e, giunto il momento cruciale, a guerra finita, interpose la sua autorità e le amicizie altolocate. A metà l maggio ’44, il Vescovo è costretto ad abbandonare la sua Ventimiglia. Bombe marine avevano reso inabitabile l'episcopio; si reca in San Remo e lascia il Vicario Foraneo, Filippo Anfosso, alla direzione del lembo estremo della Diocesi. Il Vicario, uomo attivo, intraprendente, accorrerà sui luoghi più colpiti e presso le famiglie bisognose. Una grave ferita causata da una bomba frenerà in parte la sua attività. In Ventimiglia restano a condividere la sorte due sacerdoti: il prof. Don Giovanni Orengo di Badalucco, parroco di Sant’ Agostino e Mons. Antonio Borea, prevosto della Cattedrale.

           Don Orengo di Badalucco, dormì per due anni su un vecchio materasso...

Don Orengo visse la passione dei Ventimigliesi e pianse sulla distruzione della città. Sacerdote di forte carattere, di breve conversazione, ma sempre dotta, e maestro di praticità, giunse dalla Parrocchia di San Giuseppe di Sanremo, (dove, già l'elemosina quotidiana per i suoi poveri era un rito. Fondò il mensile parrocchiale “San Giuseppe”), allorché Ventimiglia era in fase di risveglio commerciale. Fu amico degli abbienti, ma padre dei bisognosi; sollevare le miserie altrui divenne un dovere quotidiano e padre restò quando per le non celate idee sociali fu consigliato di usare prudenza. Si urtò con il console Brandimarte, con il commissario Piccone, con Giavelli, tutti santoni del tempio fascista locale. Accusato di soccorso agli Ebrei, volle e seppe difendersi. Con prudenza, per affermare le convinzioni socio cristiane, si aprì all' azione clandestina; fece parte del Comitato Locale di Liberazione, di cui furono parte attiva l'avv. Maccario, il farmacista Azzaretti, il dottor Gibelli, l'ing. Trucchi, e Gugliemi Francesco. La guerra e i bombardamenti non lo allontanarono dal suo posto di Parroco: fu sempre tra i primi ad accorrere tra le macerie a portare soccorso e ad estrarre i feriti ad amministrare l'assoluzione ai moribondi. Soccorse con il denaro della chiesa e con quelli di famiglia chi trovò nella dura miseria. Sebbene certo di non essere ascoltato, sfidò ogni divieto perorando la sorte di alcuni parrocchiani accusati di sovversivismo. Di lui ricordo, che giovane curato (Don Allaria), incuriosito delle macerie ancora affiancate al chiostro di Sant'Agostino, indicandole, mi diceva: «Vedi, qui sotto quest’arco, vissi per due anni su di un materasso quasi sempre umido per aiutare i parrocchiani e proteggere dai ladri le suppellettili della chiesa e della canonica quasi distrutte. Sai che si pregava con fede». A Dio affidò la sua città e la sua Chiesa divenuta inservibile per i continui bombardamenti e quando, per celebrare la S. Messa, all’interno si rese impossibile, eresse un altare nel chiostro sul quale officiò di fronte ai parrocchiani. (Quando morì, a metà degli anni cinquanta, lo portarono a Badalucco, mi ricordo che i suoi parrocchiani noleggiarono diverse corriere per rendergli omaggio, accompagnandolo nella sua ultima dimora).

  DON BOREA, L' ANGELO DI VENTIMIGLIA ALTA, RIMASE SOTTO LE MACERIE PER SALVARE UNA DONNA.

Nella Ventimiglia Antica, nel silenzio e in una totale dedizione, il Prevosto Borea non volle abbandonare quelle famiglie che per la povertà o impossibilitate dovettero restare; era sempre presente, si prodigò nel soccorso dei feriti, estrasse corpi inerti dalle macerie, a molti vecchi cercò abitazioni presso parrocchiani di San Bernardo e di Seglia. A tutti i bisognosi donava un pezzo di pane e, alla richiesta, d’una medicina. Di lui si diceva essere immune e uomo senza paura. Nella sua mente mai poté cancellarsi la seconda ondata di bombardieri sulle Cianchette ove era accorso a portare aiuto. Stava estraendo una donna ferita dalle macerie, quando un nuovo crollo lo investì. Fu estratto ancora vivo dagli uomini dell'UNPA al calare della sera. Non fu un timido e seppe usufruire delle vecchie amicizie. Alla Caserma dell'Annunziata, sede di distaccamento dei marinai tedeschi e delle camicie nere, erano rinchiusi uomini e donne fermati dalle pattuglie o fatti prigionieri nei rastrellamenti, non era un secondo lager; vi comandava la milizia, il maggiore Anfosso di Airole, vecchio amico e parrocchiano. Don Borea venuto a conoscenza dei maltrattamenti che mettevano in opera, spesso si recava a perorare per i malcapitati. Sulla strada di Latte una pattuglia partigiana aveva fermato e rilasciato il mag. Anfosso; pochi giorni dopo un gruppo del distaccamento del Gran Mondo aveva assaltato e distrutto la guarnigione fascista in Airole. Per atto di rappresaglia donne e uomini di Airole vennero arrestati e condotti all'Annunziata; Don Borea temette il peggio e, poiché erano già suoi parrocchiani, notte tempo, si portò alla presenza del Maggiore e ottenne un trattamento umano, fu autorizzato a visitarli e recare loro cibarie in attesa di essere processati. La situazione divenne incerta; i Tedeschi erano per una severa punizione. Don Borea chiamò in canonica il maggiore ad amichevole colloquio. Sul fare del giorno, allineati, sotto scorta fascista, furono condotti oltre il ponte del Roia e rilasciati ritornarono alle loro case.

 

Lui Cerin

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